persone in coda
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Venerdì 28 agosto sono andato all’Expo di Milano. Un’esperienza bellissima, ma stancante. Ho camminato quasi ininterrottamente per circa otto ore, prima di prendere posto nella navetta verso il parcheggio. Vicino a me, una signora si è lamentata, a voce notevolmente alta, del fatto che ha avuto il tempo di visitare solo tre stand. Al costo di 39 euro per l’ingresso, ogni stand le è costato 13 euro. Ha ragione a lamentarsi, senonché io, nello stesso tempo di permanenza, di stand ne ho visitati quarantadue, al costo di meno di un euro a testa. Sono forse dotato di super poteri? No, il fatto è che la signora ha deciso di visitare lo stand giapponese (media di attesa due ore e mezza), tedesco (attesa circa un’ora e mezza) e italiano (attesa di oltre due ore), cioè i tre padiglioni più gettonati e presi d’assalto. Quelli che ho accuratamente evitato, concentrandomi su Paesi africani e est-europei. Che poi, detto tra noi, ma che senso ha, per un italiano, fare due ore di fila per scoprire le specialità alimentari italiane? Non è indice del nostro incredibile e inguaribile provincialismo? Ho avuto la sensazione, infatti, che molti si accodassero solo perché in tanti erano in coda. Non succede lo stesso in ogni ambito, in Italia? La musica vende poco e quel poco lo vende grazie ai talent show e a cantanti che durano poche stagioni, se va bene, ma che tutti i ragazzini devono comprare pena l’esclusione sociale. Il cinema vede trionfare “Cinquanta sfumature di grigio” perché non si poteva dire di non averlo visto, salvo poi scoprire che era una “boiata pazzesca”. La letteratura non fa certo differenza, purtroppo. Non si vende il contenuto, ma la confezione. Le grandi case editrici fanno a gara per avere l’autobiografia del calciatore di richiamo (basti pensare a quanto ha venduto il libro di Ibrahimovic!) o del cantante per adolescenti del momento o del fenomeno da reality. Perché investire su uno sconosciuto autore piuttosto che dare al pubblico ciò che vuole, certi del successo economico? E, quando non si ricorre al personaggio famoso, si punta su una letteratura “furbetta”, in cui improbabili storie vengono spacciate per vite realistiche. Così abbiamo personaggi tristi e sfortunati che impazzano nell’immaginario collettivo, tra “numeri primi” e “acciaio” di periferia. Sono libri che si devono comprare, si devono leggere e si deve dire che sono piaciuti, altrimenti si fa la figura dello snob, del nerd o dell’hipster. La letteratura di genere tende a scomparire, come anche la poesia, schiacciata da una presunta indifferenza del pubblico. Ma quanto il rifiuto degli acquirenti è indotto dalle scelte delle stesse case editrici? Faccio un esempio. Da amante del fantasy, non posso che essere felice del successo straordinario di Licia Troisi, ma mi chiedo: e se non avesse la Mondadori alle spalle? Avrebbe lo stesso successo? Quanti autori validi come e più della Troisi non vendono nulla? Quando mi chiedono i miei autori fantasy preferiti e non mi sentono fare il nome della scrittrice italiana, la reazione è di stupore. “Come? Non ti piace la Troisi?”, perché si è insinuata l’idea che non può non piacere. Così come non si può non visitare il padiglione giapponese all’Expo, salvo poi lamentarsi di non aver visto, o letto, tanto altro.

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