marshall mcluhan
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Prologo (ripescando grumi di conoscenze sociologiche).
“La Galassia Gutenberg” di Marshall McLuhan rimane a tutt’oggi uno dei testi fondamentali sulle caratteristiche, le modalità ed il ruolo della tecnologia nella comunicazione di massa. Il testo dello studioso canadese, seppur citato spesso a sproposito, come del resto buona parte del suo pensiero, è ancora largamente attuale, soprattutto nella sua capacità di descrivere i frenetici (e spesso repentini) cambiamenti delle forme di comunicazione col mutare nel tempo degli strumenti utilizzati (i segni, la parola, i caratteri di stampa, la trasmissione a distanza fino alle tecnologie ‘interattive’ più avanzate…) e nel suo valore di ammonimento, poiché niente è più pericoloso dell’incoscienza.

“Ogni parola parlata è una divinità momentanea”. “Non essere consapevoli vuol dire non esistere”. “Ogni tecnologia ha il potere di annebbiare la consapevolezza umana”. “L’uomo ‘normalmente diviso’ è urbano, borghese, visivo, preoccupato delle apparenze, della rispettabilità e della conformità. Via via che diviene individuale e specialistico, diviene anche omogeneo”. “Ogni miglioramento nelle comunicazioni aumenta le difficoltà di comprensione”.
Ecco una piccola, sintetica antologia delle riflessioni di McLuhan, contenute nel libro citato, su cui forse converrebbe a tutti riflettere, nel lavoro come nella vita di tutti i giorni. Come antidoto alla presunzione, magari, ossia a quel brutto diavoletto che induce – talvolta con successo, molto opinabile – a scambiare per verità stabilite le proprie opinioni o quelle prese a casaccio e in modo compulsivo.

La comunicazione ai tempi dei social network
Più che di comunicazione in senso stretto, nel caso dei social network parlerei di deformazione: di sé, della propria vita, del proprio sistema di valori o disvalori, del ruolo della conoscenza e delle competenze nella formazione del giudizio, del significato del termine ‘cultura’.
Fateci caso: questi canali ridondano di opinioni tranchant, di affermazioni che vorrebbero suonare apodittiche. Di flussi di autentica incoscienza. In un continuum in cui tutti intervengono su tutto. La guerra, la pace, l’amore, la religione, la satira e il terrorismo, le preferenze sessuali assai più di quelle fiscali, l’accoglienza e i muri, la montagna e il mare, la letteratura e la mistica del cibo. Un elenco sterminato di concetti, più o meno fondamentali, più o meno complessi, trattati per lo più come se la conoscenza dei termini di ciascun problema fosse un’inutile e perfino noiosa perdita di tempo rispetto alle verità (rivelate? Indotte? Derivate? Boh!) insite in ciascuno di noi. Verità che, questo è ovvio, siamo tutti tenuti a comunicare, come quel grottesco anchor man (interpretato da Peter Finch, se non erro) del “Quinto potere” di Sidney Lumet, che, non avendo internet, dava via le sue ‘rivelazioni’ di fronte ad una telecamera accesa nell’orario di maggior ascolto. Con tanto di isterismi e svenimenti, oggi sostituiti, non solo simbolicamente, da tweet e “mi piace”… I seguaci del profeta cine-televisivo, autentici e tipici ordinary men. I seguaci dei giorni nostri, tempestivi followers, seguaci, come gli appartenenti ad una setta esclusiva.

social network

E le polemiche, poi. Imperversano su ogni profilo. Corrono di mouse in mouse, riprese da amici e nemici, commentate con toni apocalittici, apprezzamenti e risposte piccate. Non risparmiano argomento di sorta, tutti democraticamente ridotti a tema da bar dello sport (con il massimo rispetto per il luogo e i suoi frequentatori, sia chiaro…).
Data l’insistenza e financo la pervicacia che anima questa gran moltitudine di polemisti, viene da chiedersi: ma le battaglie polemiche combattute sul puntuto e pettegolo campo dei social network sono o non sono utili al confronto di idee?
Difficile rispondere in modo evasivo. Fra un “mi piace” e un “cinguettìo”, una dotta (?) citazione e un nuovo capitolo della propria opera omnia filosofica, lo scenario – non nella sua interezza, certamente no, ma in misura considerevole e prevalente – appare desolante. Siamo sinceri: dai nostri computer e da tutta la sfilza di diabolici congegni portatili a nostra disposizione sboccano quantità industriali di scempiaggini diffuse per critiche autorevoli e analisi approfondite. Siamo investiti e soffocati da scrosci di fesserie e malignità che ormai con preoccupante progressione inclinano alla diffamazione, alla calunnia, all’offesa brutta e cattiva, all’oscenità culturale e lessicale.
L’attacco contra personam, tanto meglio o peggio se espresso attraverso il dileggio e l’offesa, è prassi diffusa.
E anche quando non scatta la vena polemica, i toni sono sempre accesi di finta passione, come sulla scena di un teatro di terz’ordine. Il confronto è inesistente, sembra di trovarsi ad una specie di Hyde Park appena uscita dalle pagine di Dylan Dog, in un giorno anonimo e desolato.
Un quadro dai colori male assortiti. I cui autori appartengono ai tipi (dis-)umani più diversi: dai sedicenti intellettuali sprovvisti di storia e di bagaglio culturale ai professionisti della solidarietà, dalle casalinghe disperate (che scrivono “Mi piace! Mi piace!” con la stessa ilare stolidità con cui le tre sorelle di ?echov ripetevano “A Mosca! A Mosca!”) ai Tartufi, ai trapezisti della morale e ai simulatori.
In pratica un vasto, scoraggiante campionario del fallimento umano. Tutti ad agitarsi per un posto al sole nel bordello virtuale, a godersi gli applausi pelosi degli spettatori-amici che rimpinguano sempre più numerosi gli spalti dei diecimila nuovi Colossei aperti al pubblico di internauti. Una galleria di nuovi mostri che crede di combattere la frustrazione con un quarto d’ora di notorietà; una sfilza di emuli del mil?tis gloriosi di Plauto, fanfaroni e trombettieri di ogni specie, gente che non ha niente di cui potersi seriamente (oggettivamente) vantare, ma che nondimeno pretende di elargire lezioni, proclamare grandezze e sanzionare talenti, snocciolare giudizi al vetriolo: roba forte, pretenziosa e metaprofessionale, qua e là persino fondata o verosimile (conoscete la storia delle scimmie e della Divina Commedia?), se non fosse per il piccolo particolare che il pulpito non è proprio dei più inappuntabili o raccomandabili.

Epilogo
Quale orrore devono rappresentare, queste presenze insane, per la gente che lavora, magari nel silenzio, con serietà e senso della dignità personale… Per i veri credenti e per quelli cha di cose da dire ne hanno, eccome…
Mentre le presenze nocive lottano non – parafrasando una canzone di Guccini – per avere “un lauro (da genio minore)” previa trascrizione di quartine a Kayyam, ma per la promozione da parcheggiatore abusivo a servo della nuova gleba.
Polemiche rabbiose e dibattiti pseudoculturali prezzolati, voci velleitarie o folli per dar luogo a strane alleanze e a bizzarre assonanze, sproloqui condotti al ‘nobilissimo’ presupposto del: Lei non sa chi sono io!
Una miseria senza fine, raggelante. Il frutto perverso e meschino della vanità fine a se stessa: Vanitas vanitatum, et omnia vanitas!
Non so come la pensiate voi, ma per me quest’uso cum mentula canis della comunicazione (e dei suoi vieppiù raffinati strumenti), polemiche vere o presunte comprese, rappresenta un grossolano, insopportabile monumento al vacuo incorporeo, alla frustrazione diffusa e all’indecenza senza confini.
Significa, semplicemente, che troppe persone cercano di cogliere l’occasione per dare al mondo il peggio di sé!
Leggere o rileggere McLuhan, allora, può essere l’occasione di vedersi dentro. E magari offrirsi l’opportunità di studiare e capire prima di scrivere e urlare…

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