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Ultime notizie dalla Televisione di Stato: il servizio pubblico è morto, viva il servizio pubblico!

Sono di questi giorni le ultime clamorose polemiche sull’apparizione/scorribanda della famiglia Casamonica – quella del funerale più chiassoso, kitch e inopportuno di questo secolo: roba da vecchi peplum o da Padrino parte III, stando alle cronache più neutrali… – sugli schermi mondani di “Porta a Porta”, il programma-enclave di Bruno Vespa. Dall’infausta sera, premiata peraltro da ascolti consistenti, la nazione tutta è percorsa da fremiti di indignazione, biasimi, inorridimenti o (a seconda della scuola di pensiero) da consensi, difese d’ufficio (politico) e epinici per il vecchio e caro giornalismo pluralista e garantista.
Di tutto, di più. Come la Rai.
Polemiche destinate ad affievolirsi e a scomparire, superate, oscurate da un nuovo fatto di cronaca, dall’ennesima fiducia chiesta dal Governo o dall’imminente arrivo dell’autunno più freddo degli ultimi cento anni, dalla sempre utile versione dell’attentato di matrice anarchica di là da venire o magari dalla prima vittoria stagionale della Juventus.
Non sono fra quelli che definirebbero mai la puntata di “Porta a Porta” oggi al centro del confronto moralisti-cinici (versione moderna della tipica schizofrenia nazional popolare italiana: Francia o Spagna, Coppi o Bartali, Rivera o Mazzola, Berlusconi o Kermit la rana, etc. etc.) un “errore grave”. Né di quelli che approfittano della novità (davvero abbiamo una memoria così corta?) per disquisire su senso e ruolo del giornalismo, chi per incoraggiare il vespismo e chi per gridare all’intervento dall’alto per “controllare” le voci, anche quelle passibili di essere fuori dal sen fuggite…

Una precisazione, necessaria: sono uno di quelli a cui non piacciono né i richiami a un’etica che nessuno rispetta, ché li ritengo ipocriti e strumentali, né le censure. Non sono neppure d’accordo con gli interventi repressivi, tanto meno quelli annunciati a nuora perché suocera intenda… Non è questa la mia forma mentis, non è la ragione per cui faccio il lavoro che ho scelto di fare. Un giornalista deve anzi battersi per la libertà di espressione, anche quando supera i limiti, specie del buon gusto.
In realtà, fatta la tara di dietrologie e interessi di bottega, la questione di fondo da sollevare sarebbe un’altra e cioè se “Porta a Porta” e succedanei hanno un senso, una loro ragione d’esistere (anche come esempio di servizio pubblico, ma non solo…) e se sì, quale…
Non raccontiamoci balle, per favore: in materia di informazione orchestrata, adulterata o deviata l’Italia può insegnare al mondo intero… Negli anni corsi dalla nostra televisione e dalla nostra carta stampata, abbiamo assistito ad ardite ricostruzioni (non solo… plastiche) dei fatti, a stravolgimenti della verità e a verità negate. Ci dicono ancora qualcosa i nomi di Matteotti, Pinelli, Valpreda, Pasolini, Cucchi? Di Piazza Fontana e Ustica?
Questo è pur sempre la terra dei cachi e di quei garantisti tra i nuovi colleghi di Giovanni Scattone – il professore che anni addietro, assieme ad un compagno di merende suo pari, progettò ed eseguì il perfetto delitto per diletto uccidendo Marta Russo, una studentessa di passaggio dal cortile della Sapienza – che, ritrovandoselo accanto in un istituto professionale, “non se la sentono di giudicarlo per il suo passato”, come se uccidere per noia e superbia fosse come parcheggiare abitualmente in sosta vietata… Forse, se si fosse trattato di un marocchino o di un romeno, il coraggio si troverebbe…
L’indignazione, in questo Paese, o è un optional o è pelosa.

I Casamonica gestiscono traffici di ogni sorta, nessuno dei quali pulito, perciò sono oggetto di indagini della magistratura nel filone di “Mafia capitale”. Però, il giorno del già citato funerale del capostipite Vittorio, nessuno sapeva chi fossero, cosa fossero.
“Le informazioni non sono circolate nel modo corretto”, ha dichiarato prontamente il signor prefetto di Roma. Senza il benché minimo sussulto di un collega, di un intellettuale o di un “indignado” da esibizione. Sta di fatto che, nella nazione dell’inamovibilità di stato, a fronte di un evidente e gravissimo errore, sono ancora tutti lì, prefetto compreso, come se tutta la colpa fosse veramente di un parrochetto alla don Abbondio, già temprato dalle polemiche del caso De Pedis… Ma si può?
Se prefetti, politici, amministratori, funzionari e investigatori non sanno, non conoscono, non si sono parlati fra loro, perché prendersela con un programma pluri-esecrato e diciamo pure sputtanato? Perché attendersi da Bruno Vespa una puntata contro natura, la sua, di rinuncia a tutto quanto fa spettacolo?
L’altra sera, in fondo, cos’è mai successo di tanto eclatante? È successo che Vespa ha fatto quello che sa fare benissimo; difatti è stato quello di sempre, cioè strafottente e intoccabile, come da anni e anni a questa parte, con il risaputo stile della mosca che ronza sul brodo, con l’aplomb di chi è assuefatto a ben altre tempeste, da cultore dell’abolizione di ogni contraddittorio e insuperato cuoco della pietanza più gradita (nei fatti) dagli Italiani: l’ipocrisia. Quella che, se fossimo un popolo onesto con se stesso, bisognerebbe mostrare a Master Chef e nelle scuole di cucina. Altro che spaghetti e pizza!
Vespa è sempre se stesso, occorre dargliene atto. Lui incarna il perfetto italiano medio: è un democristiano verace, indeflettibile, opacissimo, cerchiobottista (da quelle parti, una specie di certificato di buona condotta…), almeno quanto lo è Renzi, risciacquature nell’Arno o meno, le cui strette frequentazioni demitiane sono d’altronde ben note. E parecchio sottaciute. Le convenienze e le alleanze prima di tutto, sopra tutto.
In un empito sornione, il Bruno nazionale per difendersi ha evocato il giornalismo nobile, si è paragonato ad Enzo Biagi. Poi, è vero, ha perso di quota e ha evocato Michele Santoro, come dire il diavolo e l’acqua santa. Non sta bene: il paragone, non Vespa. Ma tant’è, con la nostra memoria storica, quanto volete che ci voglia per scordarsi dell’ultima marachella? Una soubrette procace, un comico del Bagaglino, un aggiornamento del contratto con gli Italiani, i successi dell’Expo e via, ad inaugurare un new deal in versione “du spaghi da Giggi er zozzone”…

una caricatura di bruno vespa
Vespa è un formidabile intercettatore di flussi. Ha poteri mesmerici e narici educate, da principe dei cattura-odori. Ma resta pur sempre il fatto che da lui, nel suo salotto delle ceralacche e delle feluche, dove ancora si percepiscono i miasmi del caso-Cogne e le deprimenti performance dell’avvocato Taormina, fanno ancora tutti o quasi a botte per andare, apparire, esibirsi in frac e guantoni finti, dire quattro facezie fra amici, farsi due crasse risate in faccia a milioni di pensionati inebetiti (e di altri italiani, giovani compresi), fingere una qualche preoccupazione sociale quasi che la tragedia dei migranti non si intrecciasse – quotidianamente, intimamente – con quella dei tanti che dall’Italia non hanno neppure l’illusione di poter scappare.
Da Vespa va in scena, sera dopo sera, secondo un codice ben collaudato e con l’imprimatur dell’Italia che conta, uno show politico dove pubblico e privato si confondono, diventano indistinguibili (Cazzo! Vuoi vedere che sotto sotto Vespa è un pericoloso ex sessantottino ed ex movimentista?). Si tratta, in altri termini, di una rappresentazione all’amatriciana, repubblicana/disincantata/televisiva, di quelle speciali cerimonie nella Francia del Sei-Settecento così mirabilmente descritte da Norbert Elias nella “Società di corte”, in special modo con le espressioni le lever du Roi e le coucher du Roi. A “Porta a Porta”, voglio dire, c’è il potere che si palesa, sfila, si definisce. Il re, il capo, il ras o lo jefe di turno sono ripresi sia nei loro gesti istituzionale che nelle loro attività più quotidiane – come per l’appunto la sveglia e la nanna del re – con la solennità che si conviene al rango di ognuno, nello sfarzo delle loro corti e a garanzia notarile del loro status. E gli italiani s’addormentano soddisfatti oppure restano svegli e incazzati, ma senza conseguenze di rilievo, pronti a rimettersi a sedere la volta dopo, esattamente allo stesso posto.
Queste immagini, in apparenza del tutto innocue e domestiche, quasi insignificanti, sono una vera e propria epifania sempre rinnovata del potere. Hanno una valenza politica precisa, formidabile. Esistono e sono trasmesse per indicare in ordine di apparizione chi comanda e chi obbedisce, chi fa parte della corte di notabili e chi invece può solo andare a scopare il mare!
I Casamonica, diretta discendenza della banda della Magliana che a lungo comandò a Roma (da sola?), la loro bella fetta di potere ce l’hanno eccome e non si fanno scrupoli ad esibirla, servendola su un piatto d’oro e di sangue, nei modi burini ed elementari di famiglia, senza quarti o quinti di nobiltà. A posteriori avrebbe potuto essere uno spettacolo perfino divertente, se ci fossimo trovati in un film e avessimo potuto scordarci per un’ora sola dei morti per droga nel nostro Paese. Diretta conseguenza dei traffici che passano anche per Roma e, pare, per le mani di gente come i Casamonica ed affini. Statistiche reali, purtroppo, non gloriosa televisione.

Roma non sarà mafiosa ed è vero che a renderla eventualmente tale non è stata di certo “Porta a Porta” e il suo indistruttibile maestro delle cerimonie. Però la puzza di marcio si percepisce(-va) da lontano.
In un siffatto scenario, da trent’anni in qua Vespa ha riservato a se stesso il discutibile eppure indiscutibile compito di indossare la livrea di intercettatore di qualsiasi flusso provenga dai luoghi che contano, dai palazzi del potere, non importa di quale colore esso sia. E nel suo ruolo di scaltro direttore del museo nazionale delle cere, della nomenclatura e delle apocalissi sa come trasformare questi flussi in puro (avan-)spettacolo.
L’ha fatto, lo fa e continuerà a farlo a dispetto di strilli e reprimenda, con la sua eterna aria da mandarino compiaciuto. Che fa il pari con quella dei tanti falsi moralisti rosi dalla voglia di essere nel suo salotto buono e dei milioni di italiani che blaterano di etica e poi, come in quell’album dei Genesis, vendono i loro buoni sentimenti un tanto al grammo. Per un posto in prima fila, da abbonato cronico. Selling feelings by the pound.

Il servizio pubblico è morto. La verità è febbricitante. E neppure questo popolo si sente troppo bene!

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