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Pubblicato su “la Repubblica” l’11 novembre 2016.
Da un’intervista rilasciata nel 2007.

MILANO – La privazione è la madre della poesia, scrisse nel suo romanzo più bello, Il gioco preferito. Lo cominciò che era il 1960. Lui stava a Londra, era poco più di un ragazzo, sopra a tutto giocava a flipper, frequentava artisti e andava a puttane. Oggi, a settantatré anni Leonard Cohen ha strizzato quella convinzione fino all’ultima goccia. Si è privato di tutto, tranne di ciò che ritiene essenziale. Una donna, la bellissima Anjani Thomas, 48 anni, sua ex corista e adesso cantante solista: «Questa immensa donna che a volte viene da me al mattino prestissimo e mi strappa via dalla pelle».

La poesia, che attraversa dalla prima all’ultima riga Il libro del desiderio appena uscito in Italia da Mondadori. Qualche canzone: «Il mio tempo sta per finire eppure non ho ancora cantato la vera canzone, la grande canzone». Il cuore: «Non vuole saperne di arrendersi». E Dio: «È così divertente credere in Dio». Il resto è uno scroscio d’ applausi dietro i ricordi.

Lui asciuga la parola fino all’epitaffio.« Ho già scritto tutto ciò che potevo scrivere per quelle che erano le mie capacità. Ho detto tutto. Mi sorprendo quando qualcuno dimostra ancora interesse per il mio lavoro».
Leonard Cohen è tornato a Montreal, gli piace parlare dei suoi luoghi. Così gli domando dove preferisce lavorare. «Su una scrivania completamente sgombra. Sopra c’ è soltanto il computer e una piccola stampante. Mio figlio Adam dice che le stanze di casa mia hanno tutte il medesimo aspetto. La scrivania è di legno di pino vecchio, tre metri di lunghezza per uno e mezzo circa di larghezza. Un uomo che conoscevo piuttosto bene, un devoto avventista del settimo giorno e artigiano della vecchia scuola, l’ ha costruita per me vent’ anni fa».

Trascorre molte ore della giornata a quella scrivania?
«Sì. Penso, disegno, guardo fuori dalla finestra. Spesso c’è un uomo dentro un furgoncino super attrezzato, o forse blindato…, che vende gelati ai bambini».

Vive da solo?
«Al mattino mi piace svegliarmi da solo. La mia compagna vive a casa sua, non lontano da qui. Mia figlia Lorca sta nell’appartamento al piano di sotto. Lei ha due cani, si chiamano Toast e Nova. Nova è prossima alla fine, cammina a fatica anche nei brevi percorsi».

Lei ha sempre incarnato l’animo dell’ebreo errante. Questa volta si fermerà?
«Non credo. La strada è troppo lunga, il cielo è troppo vasto, il cuore errante è finalmente senza dimora.

Il suo ultimo libro è infatti il racconto di un lungo viaggio. Il viaggio di una vita. Maestri, amici, amore, religione, rimpianti e sconfitte. Lei disse: “Ho imparato, scrivendo canzoni, che più si è intimisti più si parla di temi universali. I sentimenti di una persona diventano quelli di tutti”. È ancora così?
«Credo di sì. Ho scritto una canzone che si chiama Lullaby. Dice: se il tuo cuore è trafitto, non mi chiedo il perché, se la tua notte è lunga, questa è la mia ninna nanna. Vorrei che qualcuno pensasse a me così».

Nel ’73, durante la guerra del Kippur, lasciò Los Angeles e andò a Tel Aviv per arruolarsi. Oggi che cosa significa per lei essere un ebreo?
«Nient’altro che un gruppetto di persone raccolte intorno a un tavolo in un venerdì sera con la luce soffusa».

Eppure l’onda antisemita è tornata a gonfiarsi in molte parti del mondo. Dall’Iran di Ahmadinejad alla vecchia Europa. È preoccupato?
«Mi fa venire voglia di farle la stessa domanda. Lei non è preoccupato? Molti anni fa, il mio amico Irving Layton (uno dei più grandi poeti canadesi del ‘900 scomparso un anno fa, ndr), scrisse un libro intitolandolo L’Europa e altre brutte notizie. È una lezione attualissima e che andrebbe riletta».

Lei è stato per molto tempo nel monastero zen di Mount Baldy, a pochi chilometri da Los Angeles, un luogo dove torna spesso. Ha preso il nome di Jikan il silenzioso e ha seguito il maestro Kyozan Joshu Roshi. Perché?
«Avevo bisogno di rigore, poi è nata l’amicizia con Roshi che dura da quasi 40 anni. Roshi ha compiuto cent’ anni lo scorso primo aprile. Eravamo seduti di fronte a un bicchiere di vino rosso un paio di anni fa. Ha sollevato il bicchiere, mi ha dato un pugno sulla spalla e mi ha sussurrato: ‘Scusami se non muoio’».

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Ora è tornato in Canada. È stato richiamato dalle sue radici o l’hanno deluso l’America e il presidente Bush?
«Dopo l’11 settembre ho cominciato a sentire il desiderio di rientrare, di radunare amici e familiari. È un buon modo per esprimere e condividere reciprocamente la preoccupazione. Trent’anni fa ho scritto una canzone che si intitolava La moglie zingara. Diceva: «troppo presto per l’ arcobaleno, troppo presto per la colomba, questi sono gli ultimi giorni, questa è la tenebra, questo è il diluvio». Allora quei versi riproducevano il mio stato interiore, oggi rappresentano lo stato esteriore. Non ci vuole molto a indovinare che non ho alcuna simpatia per il mio tempo».

Ha dimostrato di avere scarsa simpatia anche per la politica. Il suo disimpegno è stato molto criticato.
«La mia risposta è inevitabilmente attutita. È troppo tardi per le critiche. Vede, l’ho scritto più di una volta per chi ha letto i miei libri e ascoltato la mia musica: perdonatemi se ho sprecato il vostro tempo».

Dicono di lei: è un guru, un maestro, un filosofo. L’hanno accostata a Dante Alighieri per come sa trasformare le storie dell’umanità quotidiana in visioni metafisiche. È un paragone in cui si riconosce?
«No. È un paragone assurdo che non accetto. Persino in questi anni di grande permissivismo, non possiamo né dobbiamo permettere che vengano meno le regole fondamentali. Che venga meno il buon senso».

Molte donne hanno camminato nella sua vita e nelle sue canzoni. L’hanno amata e sono state amate. Che cos’è il sesso?
«Un momento di riposo su un letto di spine».

E che cos’è l’amore?
«The background, quello che viene prima. Se preferisce, il sottofondo».

A 73 anni ha paura della vecchiaia?
«Le rispondo con un’altra frase di Irving Layton che faccio mia: “non è la morte a preoccuparmi, ma i preliminari”».

Nel suo ultimo libro Philip Roth scrive che la vecchiaia non è una battaglia, ma un massacro. Come ci si difende?
«In un solo modo. Con l’amnesia».

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Nel rock chi sarà l’erede di Leonard Cohen?
«Non ho notato nessuno che si accapiglia per il mio mantello».

E lei che cosa desidera?
«Vivere, amare, leggere libri di nobili princìpi e ideali e fingere di uscirne diverso. E ascoltare ogni tanto le canzoni di Nina Simone. Quando qualcuno le suona».

di Dario Cresto-Dina

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