vaglio
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Ci sono luoghi che non sono semplicemente luoghi fisici, non li si riconosce solo come delimitati spazi urbani o porzioni di territorio con una propria fisionomia e un proprio identikit strutturale o conformazionale. Perché c’è un piano altro che li caratterizza che fa di essi quasi una categoria dello spirito, una prova ontologica dell’esistere, del proprio essere al mondo. Luoghi simbolo, quasi traccianti radioattivi che li fanno riconoscere al sangue tra una miriade di altri luoghi, di altri posti in cui (e attraverso cui ) si è condotti i propri passi, su cui si sono posati i propri occhi. Luoghi che rappresentano per la nostra anima quasi un particolare tipo di quello che gli etologi chiamano “imprinting” ovvero di quel tipo di apprendimento che serve a fissare una memoria stabile delle caratteristiche visive degli individui da cui si verrà allevati ( in questo caso dei luoghi in cui si svilupperà la nostra personalità).
Ognuno di noi ha di questi luoghi, di quelli che, con una frase forse abusata, vengono definiti “luoghi dell’anima”. Luoghi che, col tempo, dal nostro primo contatto visivo e fisico con essi, hanno spesso subito le ingiurie e le modellazioni del tempo, mutando, in tutto o in parte i loro connotati, attraverso dei restyling, involontari o volontari, che ne hanno stravolto le primitive fattezze ma non sono state in grado di scerparne l’anima, di eradicarne quel “quid” che li rende speciali.
Qui non si parla di bellezza oggettiva, di luoghi-vetrina, di patrimoni dell’umanità che risplendono di una luce di bellezza universale, di bagliori che si riflettono nelle pupille di chiunque ne osservi l’involucro di pietra e di vento. No, qui si parla di minuscole realtà, di frammenti di mondo che sono (o sono state) un mondo intero, tasselli fisici d’un mosaico interiore che per mezzo di essi si è andato componendo nella sua natura più vera, più profonda e più suggestiva. Qui si ascolta la voce strozzata di pietre dimesse, che non hanno avuto prestigiosi maestri comacini a sovrapporle, ma umili maestranze, poveri artigiani che ne hanno forgiato il nucleo incorruttibile, ne hanno plasmato l’imperfetta essenza.

Che cosa dice questa poetica foto, che cosa racconta? “De te fabula narratur”scrive Orazio nelle sue Satire (I, 1, 69-70). E’ anche di me che si parla in essa, è attraverso essa che ripesco di me ritagli di un passato che avevo accantonato nei dogli della mente, che risento suoni e voci capaci di rompere la botola dell’oblio e sgusciare fuori a distanza di un tempo che non so e non voglio quantificare; è attraverso il bianco e nero d’un tempo cristallizzato che ripesco odori, rimastico sensazioni, decifro enigmi. Questa immagine restituisce il senso del luogo dove ho vissuto per trent’anni, introiettandone ogni pur larvata magia, ogni peculiare aura.
Osservandola, non ho che una poltiglia di fiacche sillabe per dire l’emozione, mi manca il fiato lirico per raccontare il ribollire interiore, lo zenith della coscienza che riscopre zone d’ombra dove s’era annidata la pienezza e la bellezza.

Più o meno una trentina d’anni dopo che fu scattata questa foto, venni al mondo nel quartiere in essa parzialmente riprodotto. La mia casa natale non si vede, è nascosta dalla scala esterna dell’abitazione in primo piano sulla destra. Era (ed è) sull’estrema destra, proprio sul lato opposto all’abitazione che si vede in alto a sinistra nella foto. Nel sottoscala esterno della quale, in quella specie di nicchia in ombra, sotto il bianco lenzuolo steso ad asciugare al sole, mia madre e le comari del vicinato, nei pomeriggi di primavera e d’estate, si fermavano a chiacchierare, a cucire, a pulire le verdure. Più in alto ancora, sempre sulla sinistra, si staglia possente la grande quercia (lì da tempo immemorabile) che d’inverno, sotto i colpi d’un vento furibondo, vedevo oscillare, coi suoi rami-artigli ad afferrare covoni di un cielo corrusco nella tempesta. Potenza delle immagini! Un passato pietrificato si líquefa, gocciola sull’impiantito del cuore.
Non avevo mai visto il mio quartiere così come lo vedo in questa foto dell’immediato dopoguerra. Lì dove correvo con un nugolo di altri ragazzetti tirando calci ad un pallone non c’era che una sconnessa strada di pietre e di terra, dove ben difficilmente si sarebbe potuto inseguire una palla senza fracassarsi l’osso del collo o rompersi qualche articolazione. Uno di quei due ragazzini della foto, una quarantina di anni più avanti sarei stato io, o tanti altri dei miei coetanei che si radunavano lì, in quel quartiere chiamato Vaglio, ampio e soleggiato, per svuotare la cornucopia dei giochi.
Che senso di spaesamento e di nostalgia da questo tuffo indietro in un tempo altro, in questa riappropriazione d’una scheggia di passato, nella resurrezione di un ieri sepolto sotto cumuli di anni.
Di quei tempi non rimane che un’ombra e un patrimonio non dismesso di poesia e di emozione.

“Sogno d’un’ombra l’uomo: ma quando un bagliore divino ci giunga
fulgido risplende sugli uomini il lume e dolce è la vita».
(Pindaro, Pitica VIII, vv. 95-97)

La foto è di Romano Presta
Via Vaglio a Torano Castello

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