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Estate, stagione d’inganni, specchietto per allodole, fata morgana.

Eppure così piena, insufflata da un vento di poesia che rimescola le acque  del vivere, allontana le polveri della malinconia.

 

Stagione cara ai poeti, forse meno dell’autunno e dell’inverno col loro parossismo di ombre che adescano l’anima nella trappola del riflusso cosciente di memorie, ma di certo propizia a versi accesi di cromie e di ardori, di sotterranee nostalgie stemperate dal sorgere e dal dilatarsi dei sogni.

“…stagione la meno dolente /d’oscuramenti e di crisi” come pennella nei versi della poesia “ESTIVA”, Vincenzo Cardarelli, “stagione estrema, che cadi, / prostrata in riposi enormi; / dai oro ai più vasti sogni,/ stagione che porti la luce/ a distendere il tempo di là dai confini del giorno…”.
Stagione che invita alla provviste, non tanto di felicità, quanto di una serenità e di una distensione dello spirito che saranno seriamente messe a repentaglio dall’appropinquarsi dell’autunno ( e va da sé dell’inverno); così, magistralmente, descrive quest’ansia Hermann Hesse nella poesia “ULTIMI GIORNI D’ESTATE” “so fin troppo bene quanto questa bellezza sia effimera, /come rapidamente si accomiata ed io sono così bramoso,/ così avido di questa bellezza dell’estate che declina!/. Vorrei veder tutto, toccare tutto, odorare ed assaporare/ tutto ciò che questo rigoglio estivo offre, / vorrei conservare tutto questo e tenermelo per l’inverno, / per i giorni e gli anni futuri, per la vecchiaia…”
Vedere, toccare, sentire, assaporare, godere, andare: è il tripudio dei verbi “di senso” che infarcisce le poesie sull’estate : così in Rimbaud, nella celebre poesia SENSAZIONI “ …Le sere blu d’estate andrò per i sentieri/ graffiato dagli steli, sfiorando l’erba nuova: / ne sentirò freschezza, assorto nel mistero…” .
D’estate le notti assumono un fascino senza tempo, si catapultano nello spazio degli occhi con l’ allure di una spavalda e bellissima attrice; “le grandi notti d’estate/ che nulla muove oltre il filtro dei baci /il tuo volto un sogno nelle mie mani/    dipinge in versi Alfonso Gatto (POESIA D’AMORE); notte d’estate che “crepita senza bruciare” per Pablo Neruda  ( OH ESTATE!)
Notti che zampillano di bellezza incommensurabile che tuttavia non basta ad abradere la crosta della solitudine di chi non ha altra compagnia che la sua ombra. Così Antonio Machado in NOTTE D’ESTATE

E’ una bella notte d’estate.
Tengono le alte case
aperti i balconi
del vecchio paese sulla vasta piazza.
Nell’ampio rettangolo deserto,
panchine di pietra, evonimi ed acacie
simmetrici disegnano
le nere ombre sulla bianca arena.
Allo zenit la luna, e sulla torre
la sfera dell’orologio illuminata.
Io in questo vecchio paese vo passeggiando
solo, come un fantasma.

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Un aggrovigliarsi caotico di colori, un chiassoso rimbombare di voci e di schiamazzi nell’aria impastata d’umido, un mare che accoglie, materno come un utero, corpi di tutte le taglie, ammassi d’ossa e di carne avidi di ricevere balsamiche ondate di salina acqua, tiepida come il sangue, su ventri turgidi o molli, su epidermidi scanalate come colonne o lisce come marmo levigato. Voluttà e sfacelo, ansie dissimulate sotto ceroni di finta spensieratezza, problemi postdatati a un domani grifagno come un’aquila, desiderio di massificarsi in un rituale stanco, eppure capace di dare l’illusoria percezione che, come afferma il Candido Volteriano, “questo sia il migliore dei mondi possibili”. Crogiolarsi nella tinozza di un tempo effimero come un lampo e intrigante come le cosce di una ballerina del “Moulin Rouge”, tra cicalecci, fantasie suine, svenevoli sospiri, pettegolezzi da riviste scandalistiche, pasti pantagruelici et similia. Fare da schiavi e da ancelle ai propri bisogni più bestiali o più venali, volersi bene, ma un tantino, il tempo d’una estate creduta eterna eppure volatile, vaporosa, che già reclama, perentoria come un ordine militaresco, il suo epitaffio.
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Camminare a rilento di notte sulla battigia, come pellegrini lungo un sentiero sterrato o un tratturo ricoperto da una rigogliosa messe d’erba, incuranti delle difficoltà dell’andare, sospinti da una tensione spirituale o semplicemente dalla curiosità di toccare con mano la nebulosa inconsistenza dei “si dice”, di misurare lo scarto tra la realtà di un posto e la sua rappresentazione sulla scena della nostra immaginazione.
Così andando a caso, scremando pensieri, smussando asperità di malinconie, ammorbidendo la lana dei malumori con la contemplazione dell’eterno riflusso delle onde, chimeriche icone di un eterno movimento a noi inibito, a noi negato.

Andare, in un’aria promiscua di sale e di ombre, costeggiando il litorale privo di suoni, di passi, finalmente sgombro di presenze chiassose, della futile ostentazione di corpi levigati , di ormoni scalpitanti come cavalli , di vanità sesquipedali.

Nel ventre molle della notte adagiarsi, nel silenzio che ritempra, nella benigna infinità dell’orizzonte terracqueo dove ogni limite si annega.

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