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Gli antichi Greci definirono archè il principio generatore del mondo, la forza primigenia da cui ogni cosa è nata e a cui ogni cosa ritornerà alla fine del suo ciclo vitale.
Archè come realtà fisica materiale o concreta, come credevano i filosofi della scuola ionica che lo cercarono negli elementi naturali (fuoco, acqua, aria, terra) o come realtà immateriale, come legge che governa il mondo, le vicissitudini dei popoli, la storia universale, il fluire stesso dell’esistenza.
Può la poesia, sostituirsi alla filosofia, nella ricerca dell’essente, di ciò che è e sostanzia il nostro stare al mondo? Domanda tutt’altro che peregrina o retorica, anzi spunto di partenza per “ragionare”, ovvero analizzare secondo ragione, caratteri e finalità di una forma d’arte che è spesso conflittuale col controllo razionale, alimentandosi da quella che si è soliti definire “ispirazione”, e che è la trascrizione scritta d’un flusso di coscienza, di un torrente emozionale che nella forma poetica cerca di trovare argini congrui a contenerne le piene. La poesia si muove su quello che in matematica si è solito definire un sistema di coordinate cartesiane: l’asse orizzontale (che simboleggia in un certo senso l’estensione infinita di ciò che può essere detto in poesia, includendo quindi anche un ampliamento delle tipologie delle forme poetiche, che sfuggano ai soliti canovacci,  alle rigide regole compositive e si traducano in uno sperimentalismo non solo sul piano formale quant’anche su quello sostanziale) e l’asse verticale, l’ascesa o la discesa, che ha quindi come punti estremi l’infinito, il divino,  o il basso, l’oscuro, l’inconscio, il profondo. In questa ascesa, in questa tensione ideale verso le altezze della coscienza, o nelle profondità di essa, nelle cripte dell’io, si riesce forse ad imbattersi nel simulacro di quella verità, di quel principio generatore, di quella vis vitalis che, come dice Dante a proposito dell’Amore, “muove il sole e le altre stelle”, lubrifica le serrande arrugginite dell’Essere, lo spinge verso un assoluto che gli sfugge. Il poeta si muove tra gli oggetti quotidiani, nel campo minato del dolore, tra le brume del sogno, nel pantano talora asfittico della realtà, ma attraverso essi, misurandone lo spessore e la profondità, toccandone le superfici ruvide o lisce, rivisitandone le funzioni alla luce di una personale elaborazione psicologica, egli opera delle incursioni nel terreno della metafisica, cerca di inferire sensi che vadano al di là del semplice dato sensoriale, che rappresentino chiavi di accesso a un mondo “altro”, alla verità intrinseca delle cose, alla ragione ultima del loro essere, del nostro esserci.  Egli inietta cioè, nelle vene sclerotiche della realtà, il sangue di una conoscenza segreta, quasi profetica ed oracolare, che non ha numeri a quantificarla, non ha strumenti tangibili a definirne e catalogarne le proprietà. Ma ha l’immediatezza del lampo ed attraverso un linguaggio sfuggente ma limpido al tempo stesso, permette  di accostarsi  alle verità fondamentali, di effettuare carotaggi nel terreno dell’assolutezza per impiantarvi le sue colonne, costruirvi il suo sacrario e i suoi templi. Perché la poesia non cerca l’assoluto solo attraverso l’intelligenza, le costruzioni intellettuali, come fa la filosofia. Ma affianca al potente arco della speculazione razionale, la cetra soave della sensibilità profonda. Che penetra oltre le barriere fisiche, oltre la gravità delle cose, nelle rarefatte plaghe dell’assoluto.

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