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Il calcio è 90’ di tentativi di fingersi ferito, il rugby 80’ di tentativi di fingere di non esserlo…

Calcio e rugby, due mondi agli antipodi. Lo zenit e il nadir degli sport in termini di attenzione mediatica e giro di denaro. Ma la classifica s’inverte se si considerano altri valori come la sportività, la lealtà, l’agonismo, il rispetto tra gli atleti.

Due dimensioni antitetiche, e forse inconciliabili, per quanto concerne i rispettivi contenuti culturali.

Fateci caso: nel mentre che il calcio va senza saper bene dove, fatto della stessa sostanza della società dei disvalori e della indistinguibilità, immerso in un petulante e insolente chiacchiericcio, avvelenato dalle polemiche su arbitraggi (sempre in auge e sempre per questioni di centimetri), nuove tecnologie (maledetta, o benedetta, Var, a giornate alterne…) e vecchie rivalità (la conta e riconta degli scudetti vinti, persi o rivendicati a dispetto d’ogni raziocinio), governato con metodi affini e gli stessi risultati da vecchi parrucconi o da giovani turchi, il rugby celebra in un contesto civile e di sana competizione i suoi campionati nazionali e internazionali.

Fra questi, fra i più importanti, il Six Nations Championship, sorta di autentico campionato assoluto dell’emisfero boreale, giunto alla sua diciannovesima volta. Sui campi più gloriosi della vecchia Europa – Twickenham, Millennium Stadium, Stade de France, Murrayfield… – si contendono la vittoria i “quindici” di Inghilterra, Galles, Irlanda, Scozia, Francia. E Italia, l’ultima ad entrare nel prestigioso novero, grazie ai grandi passi in avanti compiuti pur se in presenza di chiari limiti in fatto di tradizione, esperienza, base di reclutamento, fondamentali e atletismo.

Il Torneo delle Sei Nazioni è sport vero, competizione fra movimenti e atleti che non cedono di un passo, anche di fronte ad avversari più forti, perfino al cospetto di arbitraggi umanamente fallibili, mai però contestati né sul campo né fuori (media compresi).

Un evento a cui si partecipa per scelte tecniche anziché politiche, per meriti (mete, strategie, preparazione fisica, risultati nei test match) e non per ragioni più prosaiche (voti garantiti alle elezioni delle istituzioni continentali e mondiali). Qualcosa su cui meditare. Su cui il calcio dovrebbe basare la propria rifondazione. Ad ogni livello, come antidoto ai vari Blatter e Platini inabissati da scandali e meschinerie, ma specie in Italia, dove si vivono altri giorni di infimo ordine dopo il fallimento della nazionale (esclusa dai prossimi mondiali) e i pessimi risultati di una classe dirigente più incline a scambiare figurine (si fa per dire…) che a produrre buoni fatti.

Così, mentre il rugby si esalta nel celebrare le prodezze dei suoi campioni (da Farrell a Machenaud, da Halfpenny a Laidlaw e Parisse) e dei suoi pubblici rubizzi e focosi ma pure competenti e corretti, il nostro calcio si immerge in sfiancanti maratone di commenti da bar per interrogarsi sui prossimi acquisti milionari (otto volte su dieci assolutamente inutili sul piano tecnico, ma spesso letali per i bilanci), sulla posizione del braccio di un difensore (attaccato al corpo o spostato di 15°?), sull’utilità della Var (quando nel rugby la prova televisiva è patrimonio condiviso), se sia meglio Tavecchio di Gravina o Lotito di Zhang.

Nel rugby, non a caso, prevalgono i grandi inni della civiltà europea: la Marsigliese, God save the Queen, Flowers of Scotland; nel calcio, invece, imperversano i jingle dei grandi gruppi della cosiddetta informazione.

Nel Bel Paese, converrebbe piuttosto recuperare il Gaber che cantava un sarcastico “… E l’Italia giocava alle carte / e parlava di calcio nei bar…”

antonello fazio

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