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Uno dei generi a mio parere più complessi da scrivere è il romanzo storico. La difficoltà maggiore sta nella grande ricerca che si deve effettuare per contestualizzare al meglio il racconto e la profonda conoscenza del periodo storico che si sceglie di narrare. A questo, si aggiunga la difficoltà di avere a che fare con una storia già scritta, di cui si conosce la fine. Un romanzo su Napoleone, per esempio, non potrà cambiare le sorti dell’Imperatore a Waterloo oppure la destinazione dell’esilio da Sant’Elena a Saint Moritz. Chi volesse approcciare la scrittura di un romanzo storico deve dare per scontato il finale del proprio romanzo. Per tutti questi motivi, ho una grande stima degli scrittori storici, soprattutto quelli che non barano, che non prendono in giro il lettore. Quelli, cioè, che non usano la Storia per raccontare una storia. Se scelgo di leggere un romanzo storico non voglio leggere semplicemente una storia ambientata nel passato, ma mi aspetto un racconto in cui la storia dei protagonisti si intrecci con la Storia. Esempi di ottimi romanzi storici sono Il nome della rosa di Umberto Eco o Q di Luther Blissett (no, non il giocatore del Milan). Ci sono anche opere notevoli che, seppur senza modificare la Storia, si prendono notevoli libertà nel rappresentare gli eventi che narrano, come Io, Claudio di Robert Graves o il mio amato Versailles no bara di Riyoko Ikeda che poi sarebbe il manga di Lady Oscar. In questi casi, la Storia diventa l’intelaiatura immutabile su cui si adagiano le invenzioni romanzesche, senza che queste vadano a modificare gli eventi storicamente accertati. Negli ultimi vent’anni, in Italia il romanzo storico è segnato profondamente dalla produzione di Valerio Massimo Manfredi. Laureato in lettere classiche, professore universitario, autore di saggi storici e romanziere di successo. Nella sua carriera ha venduto oltre quindici milioni di copie in tutto il mondo. Non è solo un topo da biblioteca, avendo partecipato a numerose campagne di scavo in Italia e all’estero, soprattutto in Israele. La sua produzione romanzesca si estende in diversi momenti storici. Si va dall’antico Egitto a Roma imperiale, dalla Grecia classica al Primo Dopoguerra. Alcune opere hanno raggiunto un grandissimo successo di pubblico internazionale, basti pensare alla trilogia di Alexandròs o L’ultima legione che è anche diventato un film nel 2007. Lo stile di Manfredi è uno dei punti a favore dei suoi romanzi, estremamente facile nella lettura con brevi e funzionali descrizioni di ambienti e situazioni, capaci di far comprendere bene al lettore dove e quando accadono le varie azioni senza tediarlo con particolari eccessivi. Siamo lontani, per intenderci, dalle lunghe e particolareggiate descrizioni delle dune del deserto di un Wilbur Smith. Anche lo sviluppo dei personaggi segue lo stesso ritmo asciutto e chiaro, senza troppi orpelli o giri di parole. L’unico punto debole, a mio parere, nella prosa di Manfredi è nei dialoghi, che a volte suonano poco spontanei, più inclini a riprodurre la letteratura classica rispetto al resto della scrittura. Dei suoi libri, i miei preferiti sono Lo scudo di Talos (bellissimo racconto sulle Termopili, da leggere assieme alla meravigliosa graphic novel 300 di Frank Miller e alla saga a fumetti 299+1 di Leo Ortolani), Il tiranno (la storia del despota Dionigi di Siracusa, che Manfredi dota di una sensibilità umana ricca di sfaccettature) e, soprattutto, Idi di marzo. Mi soffermo su quest’ultimo romanzo che narra, come si può facilmente intuire, la morte di Giulio Cesare. È il mio romanzo storico preferito non solo di Manfredi per un motivo molto semplice. Riesce a rendere avvincente una storia di cui si conosce praticamente tutto. Utilizzando solo pochi personaggi di fantasia e in ruoli di contorno, Manfredi riesce a far tenere il fiato sospeso durante il racconto, a sperare che il legionario Publio Sestio Baculo possa arrivare in tempo a Roma per avvisare Cesare della congiura. Sappiamo perfettamente che non arriverà in tempo, sappiamo con certezza che Cesare verrà massacrato in Senato, sappiamo senza alcun dubbio che i congiurati proveranno a passare per i salvatori della Repubblica contro il tiranno, ma, nonostante tutto, sospendiamo queste certezze durante l’intera lettura. E lo facciamo inconsciamente, come quando si legge un romanzo horror o fantasy, ma in modo ancora più sorprendente che nei confronti della letteratura fantastica. Manfredi non inventa nulla, eppure avrei voluto che Baculo arrivasse in tempo per dire che «l’Aquila è in pericolo». Questa, per me, è la magia della scrittura. I romanzi successivi di Manfredi, compreso l’ultimo Teutoburgo, non mi hanno regalato quella sensazione, forse anche a causa del mio maggiore interesse per la figura di Cesare. O, forse, perché la magia vera ti capita una volta sola.

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