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Pompei, ante eruzione del Vesuvio.  Interno di un thermopolium, una specie di osteria in cui vengono serviti bevande e cibi caldi. E vino, tanto vino:  dai vini dozzinali, al costo di un asse, a quelli rinomati come il Falerno, di cui poeti e scrittori cantarono le lodi,  dal costo quadruplicato.  Dietro il bancone di mescita, un  Priapo dipinto  a scopo apotropaico, per allontanare il malocchio.  Forse non abbastanza, se è vero che da lì a qualche tempo, il  “formidabil monte/ sterminator Vesevo” per dirla col Leopardi de “La ginestra”  avrebbe  mummificato uomini e calcinato cose con un’eruzione tanto violenta quanto inaspettata.

Ma ora è tempo di bagordi, “nunc est bibendum” cantava Orazio, è tempo di annaffiare il presente con la dolcezza del vino, mescolato con acqua calda , a stemperare i rigori dell’inverno; è tempo di mangiucchiare qualcosa di semplice, delle uova sode, o dei legumi,  dei formaggi, tra un calice e l’altro. Nel bancone rivestito di marmo sono inseriti i dolia  (le giare) colmi di vino.  Sulle mura degli ambienti campeggiano graffiti,  disegni di satiri, caproni o navi. E massime, lapidarie, fulminanti, talora caustiche.  Ne è un esempio questa: “Diogene, il cinico, nel vedere una donna travolta  da un fiume, esclamò :«Lascia che un malanno sia portato  via da un altro malanno». Non a caso lo avevano chiamato ‘il cinico’”.

Altra taberna, regio IX della città. Stessa atmosfera, fumi, alcool, risate: la vita che si dipana attraverso le solite incombenze, i malanni, le cose da fare.  Sui ripiani a scaletta i vasi per servire da bere e da mangiare.  Campeggiano iscrizioni alle pareti, negli ambienti retrostanti  il bancone di mescita, all’interno della sala in cui si consumano gli alimenti. Un anonimo poeta/filosofo  traccia su una di quelle pareti  questi versi pentametri,  un concentrato di potenza espressiva, di sapienza e di consapevolezza delle alterne fortune delle vicende umane.

Nihil durare potest tempore perpetuo:

cum bene sol nituit, redditur oceano,

decrescit Phoebe, quae modo plena fuit,

ventorum feritas saepe fit aura levis.

(CIL IV 9123)

Nulla può durare in eterno:

il sole che già brillò, torna a tuffarsi nell’oceano,

decresce la Luna che giù fu piena,

la violenza dei venti spesso diventa lieve brezza.

L’oblio e la lava non li hanno cancellati, tuttora rifulgono in tutta la loro valenza poetica e filosofica. Ci ricordano quanto sia velleitaria ogni pretesa di eternità, il nostro essere precari, di essere fuscelli cresciuti in un burrone,  di come sia facile passare dallo zenith al nadir, “dagli altari alla polvere”. Di come tutto obbedisca ad una ciclicità e ad un imponderabile meccanismo intrinseco che è giocoforza subire, non dominare.

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