Equinozio d’autunno: il disco d’oro del sole stampato è allo zenit dell’equatore, le ore di buio sulla bilancia del tempo equilibrano le ore di luce, circolarità che si compie in un eterno rincorrersi delle stagioni, ciascuna coi suoi belletti e i suoi profumi, con le sue asprezze e le sue seduzioni.
Autunno, dunque: metafora del distacco, specchio della vita che passa, stagione del raccoglimento dopo i fasti dell’estate; tempo di silenzi austeri, di colori caldi, di piante rinsecchite, di odori intensi, di spleen.
Da sempre stagione cantata dai poeti, vivisezionata attraverso il bisturi di versi profondi, capaci di condensarne i caratteri dominanti, le ambivalenze emotive, i connotati spiritualmente più affascinanti.
Stagione tutt’altro che arida, anzi prodiga di frutti e di doni della natura: le castagne, i melograni, i cachi, l’uva, le arance. Orazio lo sapeva, nel carme noto col titolo “Le stagioni”, lo definisce pomifer, portatore di frutti “ e appena / l’autunno ha versato i suoi frutti / ricorre la bruma, inerte.” (Orazio, Carminum, Lib IV, 7, vv.11,12).
Più o meno nello stesso tempo, nella Roma augustea, dove gli intellettuali e i poeti trovarono il supporto economico e morale di Mecenate, anche Virgilio, nelle Georgiche (II, vv.521,522), esprime lo stesso pensiero, con i versi “l’autunno dà frutti vari e matura in alto/ la dolce vendemmia sulle rocce assolate”.
Ma la natura, in autunno, mostra segni di fragilità, di cedevolezza , sebbene essa ammanti l’intrinseca precarietà attingendo, come un pittore impressionista, alla tavolozza di colori vividi e densi, avvolgenti nel caldo fuoco della loro tonalità piena; l’autunno dal “colore che inebria”, per dirla con Vincenzo Cardarelli: il porpora, l’oro, l’ambra, l’ocra. Forse proprio contemplando un paesaggio autunnale, il grande scrittore russo Puskin scrive “io amo della natura lo sfarzoso appassire” quasi un’ossimorica affermazione non priva tuttavia di una sua cogente verità.
Coglie lo sfarzo, la ridondante bellezza d’un paesaggio autunnale anche un altro scrittore russo , Fedor Tjutcev, “vi è nella luminosità delle sere autunnali / un fascino dolce e misterioso: / un oscuro splendore”.
Eppure, nonostante i suoi frutti e i suoi colori, nonostante l’ineffabile fascino delle sue sere sono la malinconia, la nostalgia, il senso della caducità che costituiscono, per molti poeti, la cifra più riconoscibile di questa stagione e il terreno di germinazione di versi ad essa dedicati e da essa stimolati.
Chi non ravvisa tali sentimenti (ripescando dalla valigia impolverata dei ricordi scolastici la poesia Novembre di Giovanni Pascoli ) nei versi “…ma secco è il pruno, e le stecchite piante / di nere trame segnano il sereno /e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante / sembra il terreno..” dove il “pruno secco” dà il senso dell’aridità, “le piante rinsecchite” sono metafora della caducità, le “nere trame” esprimono dolore, il “cielo vuoto” disperazione, “il terreno cavo” insicurezza.
Chi ha cantato con suggestiva potenza lirica questa stagione e squadernato tali temi crepuscolari e malinconici, è senz’altro Vincenzo Cardarelli, nella poesia omonima:
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
Lirica in cui l’autunno diventa metafora della maturità, di quel periodo dell’esistenza che precede la vecchiaia e la morte, simboleggiati dall’inverno. Stagioni che si accucciano e si incuneano “nelle pieghe del tempo stropicciato” per usare una magnifica espressione di José Saramago, stagioni che passano, fiori che spuntano, foglie che cadono.
Simile destino quello degli uomini, come lucidamente Omero scolpisce in versi perenni “come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini; le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva fiorente le nutre al tempo di primavera; così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua“ (Omero, Iliade, VII, vv. 146-149).
Non di meno che in Cardarelli, anche nel grande poeta francese Paul Verlaine, l’autunno diventa enzima esteriore che catalizza un senso di malinconia, nostalgia, solitudine. La visione dei colori dell’autunno evoca suoni di lontani violini che straziano l’anima del poeta e gli ricordano i giorni perduti per sempre.
I singhiozzi lunghi
dei violini d’autunno
mi feriscono il cuore
con languore monotono.
Ansimante e smorto,
quando l’ora rintocca,
io mi ricordo
dei giorni antichi
e piango;
e me ne vado
nel vento ostile
che mi trascina
di qua e di là
come la foglia morta.
Non del tutto dolente ma attraversato da una dolcezza quieta, è il “mansueto” autunno di Salvatore Quasimodo, in cui si perpetua l’analogia tra l’uomo e la foglia che cade, caduta come tappa ultima di un viaggio che inizia dall’”aspra pena del nascere”, nepente che consegna all’oblio il nostro essere, l’agglomerato di cellule, sangue e sentimenti chiamato uomo.
Autunno mansueto, io mi posseggo
e piego alle tue acque a bermi il cielo,
fuga soave d’alberi e d’abissi.
Aspra pena del nascere
mi trova a te congiunto;
e in te mi schianto e risano:
povera cosa caduta
che la terra raccoglie.
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Docente di Chimica, poeta e storico moranese. Autore di varie pubblicazioni a carattere letterario e storico, nonché dinamico collaboratore in numerosi eventi culturali, legati al suo borgo natio, al territorio, ad una visione umanistica del mondo e dell’esistenza. Letteratura e scrittura tracciano con decisione il solco della sua strada, percorsa con purezza, sensibilità e rispetto.