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“… Penso davvero che il mondo a venire, la nuova èra, sarà meno morale, più relativistica, più impersonale, meno, oserei dire, umana…”

Così, nel 1973, in un’intervista  riportata nel volume “Conversazioni” (Casa Editrice Adelphi, 2015) il grande poeta russo Iosif Brodskij (Nobel per la letteratura nel 1987)  profetizzava, in un certo qual modo l’avvento di una società sempre meno pronta a ragionare in termini solidaristici, sempre più chiusa nel proprio “particulare” (per dirla con Guicciardini); un consorzio umano sempre meno “umano”, asserragliato in una immaginaria fortezza Bastiani di buzzatiana memoria a difesa del proprio individualistico orticello dall’assalto di fantomatici Tartari  pronti a fare strame di ogni cosa, a sovvertire un ordine immaginario fatto, a ben vedere, da consolidati egoismi di casta (politico-economica, prima che intellettuale).
Oggi quella profezia sembra essersi avverata, almeno in parte, perché se si scandagliano col periscopio della mente le acque fonde della contemporaneità, si nota un arretramento culturale, un relativismo imperante, una morale “elastica”, un egoismo trionfante come la bestia dell’Apocalisse!
Brodsky è stato grande poeta e finissimo intellettuale, anche coscienza critica del suo tempo, che ha pagato con l’esilio e i lavori forzati  il suo essere indipendente rispetto alle logiche politico-culturale dell’ex URSS. Alcune sue frasi rappresentano un grimaldello morale che scuotono le nostre coscienze , incrinano le nostre presunte certezze, iniettano il siero del dubbio nelle vene  sclerotiche della nostra  arroganza. Come non essere d’accordo con lui quando afferma, in modo  perentorio “il male mette radici quando un uomo comincia a pensare di essere migliore di un altro”. Frase che andrebbe messa, sopra lo stipite di ogni porta delle aule scolastiche, per il suo indiscutibile valore pedagogico e morale.  “Ciò che distingue veramente una persona è la condotta, ciò  che si è in grado di fare, non il sangue, i geni, l’educazione, la cittadinanza”. Come dargli torto?
Brodsky dice parole di grande saggezza e di intrinseca bellezza anche sulla poesia, sui suoi connotati estetici, sul suo valore sociale, sul suo compito.
La poesia, afferma, è “un’impresa estetica capace di raffrenare la nostra bestialità”, di  stemperare e  limitare quella che egli chiamava la volgarità del cuore umano, a mitigare gli istinti peggiori.
E ancora “è il collante della civiltà”, quel quid che ci eleva al di sopra delle bassezze e delle miserie quotidiane e ci permette di osservare “la reale scala delle cose”.   Un qualcosa incistato, “ab origine”, nelle profondità dell’essere umano,  quasi fosse “lo scopo antropologico o genetico“, “il nostro imperativo biologico”. La letteratura ( e la poesia) è oltre tutto “un’educazione sentimentale… che ci rende un po’ più gentili”. 
Il dato sconfortante è che si legge sempre troppo poco. Sarà per questo che siamo diventati sempre più cattivi? 

 

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