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L’indecenza delle periferie romane non ha nulla a che vedere con il primo comma dell’articolo 3 della Costituzione. Se fosse vero che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, non ci sarebbe alcuna protesta. Nessuno si sognerebbe di impedire a settanta rom (15 uomini, 22 donne e 33 bambini) di vivere a Torre Maura, o di non lasciare entrare, a Casal Bruciato, in un appartamento legittimamente assegnato, una famiglia di cittadini italiani di etnia diversa. Lo scandalo vive, piuttosto, nel secondo comma, quello che vede inadempiente la nostra Repubblica. Una comunità incapace di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana, finisce per generare paura, disillusione, rabbia, odio, disprezzo: materie prime pregiate per chi batte la strada della cattiva politica. I nostri padri costituenti, appena fuori dal fascismo e dalla guerra avevano ben presente i rischi di un’uguaglianza solo formale. Fu per questo che non si accontentarono dell’enunciato formale di uguaglianza del I Comma dell’articolo 3, vollero aggiungerne un secondo proprio per richiamare l’intera comunità ad operare per rendere effettivo quel diritto. La maggior parte delle discriminazioni si generano nella povertà, nell’ignoranza, nella disperazione. Fu Teresa Mattei, la più giovane eletta all’Assemblea Costituente, che propose di inserire la locuzione di fatto nel secondo comma. Quell’inciampo linguistico che richiama alla concretezza dell’azione politica ha lo stesso suono rivoluzionario delle parole cadenzate di Simone.
Chi semina vento raccoglierà tempesta. Buona domenica.

 (Francesco Gallo)

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