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  1. Ultimo anno di un decennio musicalmente difficile, fatto più di grandi assenze che di nuove apparizioni, e di grandi trasformazioni che solo il tempo saprà valutare.
  2. Un anno di “inevitabili” anniversari e rimandi alle pagine più gloriose della storia del Rock. Difficile evitare la retorica della nostalgia e del passatismo. Io non cederò a questa tentazione. Ma alcuni punti vanno precisati. Senza indulgere nella malinconia sterile. L’entusiasmo è d’obbligo.

Questo è l’anno in cui non guardare e non riflettere su come è cambiato il Rock, i suoi artisti, i generi musicali, gli ascoltatori, sarebbe un vero spreco.
Nessun rimpianto, quindi. Solo il giusto peso ad eventi che hanno lasciato orme incancellabili non solo nella storia musicale ma nei solchi più profondi della nostra cultura.
Cinquant’anni addietro una Band fece il suo ultimo concerto live. Nulla di strano.
È solo che si trattava dei The Beatles, il gruppo dei Fantastici Quattro che in dieci anni sconvolsero la musica Rock e divennero la Leggenda musicale per definizione.
Era il 30 gennaio del 1969. Grosso modo dopo mezzogiorno. Una tipica giornata grigia di un tipico inverno londinese.
I Fab Four con l’aiuto del tastierista Billy Preston, chiamato da George Harrison a dare man forte al gruppo, salgono non sul palco di un teatro, di un Club, di uno stadio.
No.
Salgono sul tetto di un palazzo. Non uno qualunque. È il tetto della Apple Records, la loro casa discografica, al numero di 3 di Savile Row a Londra. Erano a casa loro. Forse suonarono lì perché erano arrivati all’apice della loro parabola artistica? Si sistemano, provano, aggiustano la strumentazione e cominciano insieme a pochi “eletti” a suonare. Il pubblico era essenzialmente formato da impiegati che approfittarono della pausa pranzo per salire a vedere. C’erano Yoko Ono, la compagna discussa di John Lennon, Linda McCartney, l’inseparabile metà di Paul. Quaranta minuti di concerto vero, circa. Con interruzioni, riprese. Stacchi. Momenti impacciati, richieste di brani scherzose recitate da Paul e John.

 

Band affiatata, carica, a tratti volutamente impacciata. Dopo anni di silenzio col pubblico, chiusi sempre in uno studio a registrare, la Band più popolare del pianeta ricomincia a provare l’ebbrezza della improvvisazione e del contatto con l’aria del pubblico.
Quasi subito, e senza biglietto, si forma una folla di fans più o meno improvvisati, chi dice più o meno “informati”, che comincia a guardare in alto dalla strada quello che sta succedendo e li riconosce con stupore e piacere.
Il regista Michael Lindsay-Hogg riprenderà tutto in un documentario che sarebbe uscito l’anno dopo dal titolo “Let It Be”, l’anno dello scioglimento ufficiale del gruppo. Un lavoro lungo almeno 80 minuti.

È facile ritrovare estratti del documentario su Youtube, scorgere la curiosità e lo stupore del pubblico, la pelliccia inconfondibile di Yoko Ono prestata a Lennon, la barba adulta di Paul, l’impermeabile rosso di Ringo, i capelli lunghi di George.
Eccoli lì su un tetto in quella che sarebbe stata la loro ultima esibizione. Una cosa pensata e improvvisata circa un mese prima, così dice la vulgata, senza grossi programmi. In migliaia ad attribuirsi l’idea del tetto come location per l’esibizione. Forse nessuno a sapere che quella sarebbe stata l’ultima performance della Band di Liverpool.
Conta poco. O, forse, conta tutto. L’alone di mistero che circondò quell’evento, misto a sincera ingenuità di chi suona per suonare senza sapere se continuerà a farlo ancora insieme, costruirono un’atmosfera surreale.
Due settimane prima, il 17 Gennaio, era uscito l’album “Yellow Submarine”.
Tutti, nel giro, erano a conoscenza che la band era agli sgoccioli. Che si era cominciati da ragazzini, all’inizio dei ’60 e che, nel frattempo, si era diventati adulti. Ognuno aveva sviluppato la sua individualità emotiva ed artistica.
Il “Rooftop Concert”, il “Concerto sul tetto” si fece e si suonò.
Ringo Starr, George Harrison, Paul McCartney e John Lennon, guidati dal Quinto Beatle, Sir George Martin, prendono strumenti e microfoni, aggiustano il tutto, accordano il necessario, si scaldano le mani e suonano alcuni pezzi. In tutto nove nel documentario di Lindsay-Hogg.
Memorabile l’interpretazione, ovviamente ripresa durante l’esibizione, di “Get Back”, ripetuta per ben tre volte, fino alla fine dell’esibizione e di “Don’t Let Me Down”. Da non dimenticare una falsa partenza di “Dig A Pony” e l’esecuzione di “I’ve Got A Feeling”.

Molti si chiedono quanto sarebbe durata la cosa.
Ci pensò la Polizia, invocata per schiamazzi, a dire stop al tutto. Quasi a fermare un gruppo di improvvisati hippies sconosciuti col cappello in mano.
Resta una frase. Enigmatica. Pronunciata da Sir John Lennon a fine performance dopo le ironie di McCartney sulla Polizia che sgombrava con lenta celerità il tutto, mossa dalle “mamme arrabbiate”, che recita così: “I’d like to say thank you on behalf of the group and ourselves and I hope we’ve passed the audition» (“Vorrei ringraziare a nome del gruppo e di noi stessi e spero che abbiamo superato l’audizione”).
C’è un Gruppo e un “Noi Stessi”. Una cosa i The Beatles. Altro chi ne faceva parte e che aveva da tempo compreso che il momento era arrivato.
L’anno dopo, uscito l’ultimo album dal titolo “Let It Be”, dopo il capolavoro di “Abbey Road”, i quattro giovanotti di Liverpool stupirono di nuovo il mondo annunciando il loro scioglimento ufficiale.
Tanti i tentativi di imitazione, di omaggio, di tributo da parte di altre formazioni a quella surreale esibizione. Il citazionismo di quell’episodio è ricchissimo e copre ogni ambito artistico.
Resta buona la prima.
Specie per chi era salito al primo posto fra tutti e aveva salutato e ringraziato tutti come piccoli e semplici esordienti. In un miscuglio di autoironia, sarcasmo british, eleganza e gratitudine per un grandioso passato. In attesa di un futuro incerto.

 

NB:
La foto in evidenza è tratta da Spettakolo.it
La foto n. 2 è da TPI.
La foto n. 3 da Rai News.
La foto n. 4 da Rolling Stone.

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