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Non conosco Zi’ Demetrio, l’anziano uomo di Civita, catturato, credo suo malgrado, in uno scatto da Francesco Mangialavori, giovane fotografo di Ricadi. La foto, pubblicata sul Corriere della Sera e poi rimbalzata sui social, sta accumulando decine di migliaia di like in pochi giorni. Mi dispiace non averlo conosciuto prima di questo scatto, Zi’ Demetrio, perché da oggi quella sua posa traballante, non troverà più la pace del suolo; si dovrà accontentare di reggersi al muro per il resto della sua vita, che speriamo sia lunghissima. A chi non fosse proprio a digiuno di fotografia, a chi avesse letto due o tre articoli di Michele Smargiassi, o più normalmente qualcuno dei suoi libri o un paio di quelli da lui recensiti in Fotocrazia, non sfuggirà certamente che non c’è nulla di più finto di una foto. Non lo dico per denigrare il bravo Mangiavalori, ma semplicemente per essermi imbattuto da giovane in qualche libro sulla Gestalt. In uno di questi, Wolfgang Köhler, ribadiva che non c’è nulla di più ingenuo (direi stucchevole, contati gli anni trascorsi da quelle teorie) della credenza della diretta corrispondenza fra percezione e realtà.

 

Quello che crediamo di vedere non è esattamente quello che c’è e se facessimo qualche esempio sui miei addominali, invece che sulle scarpe di Zi’ Demetrio, allora la cosa diverrebbe semplice e un po’ banale. La foto, con o senza editing, è sempre irrimediabilmente un tradimento del soggetto che indaga. Del resto non potrebbe essere diversamente per mille ragioni che ci porterebbero fuori dalla cornice. E’ per questo che, nonostante la foto del vecchio che vende nespole a Civita, credo si possa riprendere tranquillamente a parlare di Sud, lasciando la commozione a chi è incline alla malinconia e allo stesso tempo rifiutando ogni raffigurazione paternalistica (spero non nella volontà del fotografo) e oleografica della nostra martoriata terra.

 

E se avesse ragione Gianni Rodari, che il bisogno di vedere è un sintomo del bisogno di cultura, si potrebbe persino gioire di questa foto. Guardare è il primo movimento del vedere: il primo, non l’unico. Mettete di fianco a quella fotografia una poesia di Pierro, una pagina di Alvaro, un racconto di Repaci, una commedia di Eduardo, un romanzo di Pirandello, l’articolo pubblicato alla fine dello scorso anno dal Professor Marco Gatto su un saggio di Francescomaria Tedesco, “Il pensiero antimeridiano”, e allora forse la musica sarà meno prevedibile. C’è stato un momento che Marx tagliò la barba, ma noi non ne abbiamo memoria.

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