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di Redazione Il Libraio | Già pubblicato su “Il Libraio.it” il 12.10.2019.

 

“È molto comune che gli intellettuali ritengano che il loro compito sia di ‘guidare le masse’, ma io non ho mai accettato questa idea, e nessuno dovrebbe farlo. Allo stesso tempo, non ho mai dubitato, nemmeno per un momento, che gli intellettuali debbano costruire un ‘pensiero contro-egemonico’, non per ‘guidare le masse’ ma per dare il maggiore contributo possibile ai movimenti popolari di cui fanno parte”.
All’attività scientifica Noam Chomsky ha sempre affiancato una pubblicistica militante. A questo proposito, è tornato in libreria per Ponte alle Grazie con un testo fondamentale per i suoi cultori e non solo, La responsabilità degli intellettuali. Il saggio del 1967, evidentemente di grande attualità, diventato nel tempo un piccolo classico contemporaneo, è arricchito da una prefazione dell’autore del 2017, che ne aggiorna il punto di vista. L’edizione italiana riporta inoltre un dialogo inedito e recentissimo, che la traduttrice e curatrice Valentina Nicolì ha avuto l’opportunità di fare con il pensatore americano intorno ai temi del saggio.

 

Lei ha affermato che il compito degli intellettuali non è più quello di guidare le masse ma di aiutare le persone a decifrare la propaganda della classe politica e a individuare le strutture di potere. Ma se è vero che esiste oggi un’«egemonia culturale» di matrice neoliberista, non serve forse qualcuno che elabori un pensiero contro-egemonico? Sicuramente, come ha lei stesso affermato, le buone idee ci sono, ma cosa manca perché esse diventino egemoniche? E inoltre, sono abbastanza pragmatiche da potersi tradurre in concreti programmi di governo?

«È molto comune che gli intellettuali ritengano che il loro compito sia di «guidare le masse», ma io non ho mai accettato questa idea, e nessuno dovrebbe farlo. Allo stesso tempo, non ho mai dubitato, nemmeno per un momento, che gli intellettuali debbano costruire un «pensiero contro-egemonico», non per «guidare le masse» ma per dare il maggiore contributo possibile ai movimenti popolari di cui fanno parte. È questo che fanno sempre gli intellettuali attivisti, o almeno provano a fare. Esistono molte idee e proposte «contro-egemoniche» che sono sufficientemente concrete da essere attuate, non soltanto a livello di programmi di governo ma anche per la costruzione delle istituzioni di una società futura all’interno di quella presente, secondo i precetti di Bakunin. Elaborare e mettere in pratica queste idee e proposte è un impegno costante degli intellettuali attivisti».

 

A tal proposito, come dovrebbero porsi gli intellettuali rispetto ai movimenti, spesso giovanili, che stanno sorgendo in tutto il mondo in difesa dell’ambiente e contro i cambiamenti climatici? (penso per esempio, nel caso dell’Europa, al movimento giovanile cresciuto attorno alla figura di Greta Thunberg).

«Si tratta di evoluzioni davvero importanti, che hanno già un grande impatto. Negli Stati Uniti, per esempio, i giovani attivisti del Sunrise Movement, con il sostegno di alcuni deputati del Congresso (in particolare Alexandria Ocasio-Cortez), sono riusciti a far inserire il progetto di un Green New Deal nell’agenda legislativa, un fatto che solo fino a qualche anno fa sembrava pressoché inconcepibile e che in un certo senso è fondamentale per la sopravvivenza. In termini generali, il ruolo degli intellettuali è chiarissimo. Oltre a partecipare insieme agli altri all’attivismo diretto – manifestazioni, mobilitazione, politica elettorale ecc. –, se essi possiedono particolari abilità, talenti, conoscenze possono usarli per dare il proprio contributo ai movimenti popolari a cui aderiscono. Alcuni, per esempio, dall’esperienza storica possono trarre utili intuizioni riguardo alle strategie e alle scelte tattiche. Oppure prendiamo in considerazione il Green New Deal. Le idee abbozzate nelle proposte che hanno ora raggiunto l’agenda legislativa statunitense sono chiaramente insufficienti e imprecise. Gli intellettuali possono contribuire a colmare queste lacune, e in effetti già lo stanno facendo. Per esempio, l’economista Robert Pollin sta facendo un lavoro importante. C’è un ampio margine di azione per gli intellettuali che partecipano ai movimenti attivisti».

Rimanendo su questo tema, non vi è il rischio che persino la tutela dell’ambiente e la green economy vengano cooptate dall’attuale sistema economico e diventino appannaggio delle solite concentrazioni di potere?

«È ben più che un rischio. I sistemi di potere cercheranno sicuramente di assumere il controllo della «green economy» per i propri scopi. Ma questo non significa necessariamente che ci riusciranno. Riconoscendo questo rischio, gli attivisti dovrebbero stare all’erta e impegnarsi per fare in modo che quei sistemi non riescano nel loro intento».

 

Oggi una buona parte della popolazione ha come sua principale fonte d’informazione i social media, come Facebook e altri, dove è più facile che facciano presa slogan semplici e diretti. Penso per esempio alla questione dei migranti e a frasi come: «Non possiamo accoglierli tutti. Abbiamo già abbastanza problemi». Come dovrebbero porsi gli intellettuali rispetto ai social media? Lei stesso non usa questi strumenti...
«Personalmente, io li evito come la peste. Ma è una scelta personale, non è che la raccomandi anche agli altri. I social media possono essere usati in maniera costruttiva, e talvolta lo sono. La mobilitazione e l’attivismo di solito passano attraverso i social. Ma è anche vero che i social forniscono i mezzi per prendersela contro il capro espiatorio di turno, sviando l’attenzione dai problemi reali e gravi della società, una storia orribile e antica che oggi assume nuove forme con le nuove tecnologie, sfruttata come di consueto dai demagoghi. Le risposte sono le stesse di sempre. Ricercare le vere cause del male e della sofferenza e provare a stimolare la comprensione e la mobilitazione per fronteggiarli».

 

In Italia, ma non solo, il termine «intellettuale» è usato sempre più spesso in senso dispregiativo perché evoca un certo elitarismo di sinistra, non di rado con un deliberato intento di screditamento. Cosa dovrebbero fare gli intellettuali per sfuggire a questo stereotipo?
«Ciò che dovrebbero fare è essere onesti. Non dovrebbero presentarsi come esseri superiori il cui ruolo è «guidare le masse», ma come persone abbastanza fortunate da possedere un certo grado di privilegio, che dà loro la possibilità di dare un contributo utile alla lotta popolare».

Intervista a cura di Valentina Nicolì.

 

 

 

Noam Chomsky, classe 1928, di famiglia ebraica originaria della Russia, è tra i massimi teorici del linguaggio viventi. È professore emerito di Linguistica al Massachusetts Institute of Technology, e a lui si deve la formulazione della grammatica generativa trasformazionale.

   

I suoi saggi hanno rivoluzionato gli studi linguistici e semiotici, tra questi “Saggi linguistici (Bollati Boringhieri, 1970), “La fabbrica del consenso. La politica e i mass media” (Il Saggiatore, traduzione di S. Rini), scritto a quattro mani con l’economista americano Edward S. Herman, “11 settembre. Le ragioni di chi? (Marco Tropea Editore), “Capire il potere (Il Saggiatore, traduzioni varie), “Chi sono i padroni del mondo” (Ponte alle Grazie, traduzione di V. Nicolì), “Le dieci leggi del potere. Requiem per il sogno americano” (Ponte alle Grazie, traduzione di Valentina Nicolì) e “Venti di protesta” (Ponte alle grazie, traduzione di V. Nicolì). Infine “La responsabilità degli intellettuali”, curatrice e traduttrice italiana V. Nicolì).

 

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