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“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Così recita l’articolo 21 della Costituzione italiana.
«Chi esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche» commette il reato di «apologia del fascismo» ed è «punibile con il carcere». Così asserisce, invece, l’articolo 4 della legge 645 del 1952, meglio conosciuta come Legge Scelba, promulgata al fine di attuare la XII disposizione finale della Carta fondamentale, che proibisce la ricostituzione del partito fascista.
Sembra risiedere tutta qui, nella relazione incostante contenuta nello spazio, infinitesimale o immenso, che corre tra due pronunciamenti di uno stesso Stato, la questione posta dalla recente decisione assunta dal giudice per le indagini preliminari di Siena, Roberta Malavasi, di non porre sotto sequestro il profilo twitter di Emanuele Castrucci, il professore di Filosofia del diritto che aveva postato online frasi inneggianti a Hitler. Secondo il gip «nel post incriminato non ci sarebbero gli estremi del reato di propaganda e istigazione all’odio razziale, ma si tratterebbe di una rilettura storica e apologetica della figura del dittatore».
Dati i fatti e l’oggetto del contendere, come mai ci sia (se c’è) contraddizione o addirittura conflitto tra un (sacrosanto) principio costituzionale e una legge del medesimo ordinamento, si spiega solo con il margine di discrezionalità con il quale i magistrati possono interpretare la seconda alla luce del primo. Nel corso del tempo, in realtà, la Legge Scelba ha avuto (o subíto, fate vos) interpretazioni sempre più restrittive a vantaggio della tutela della libertà di pensiero, malgrado i generici ritocchi adottati nel 1975. In altre parole se quella legge teoricamente considera reato anche il semplice parlare bene del fascismo o dei suoi esponenti (ad esempio gridare «Viva Mussolini!»), nei fatti  varie sentenze della Cassazione ne hanno però fortemente circoscritto l’area di applicazione.
Dove sta la ragione o quantomeno un accettabile punto di incontro tra la libertà di pensiero e di parola e la necessità di un sistema sociale di difendersi dal veleno che ne mette a repentaglio la stabilità e l’ordine? Possono esserci due sole risposte: o la via dell’intervento legislativo, tenendo conto che a) nessuna libertà si determina e giustifica da sé, nessuna libertà (per quanto grande) è causa sui; b) non si capisce come, visti i fatti storicamente acclarati, inneggiare a Hitler non costituisca ipso facto una inequivoca istigazione all’odio razziale e all’eversione sociale (poiché di certo non è un contributo alla pacifica convivenza fra le razze) o un’apologia del fascismo (giacché dire “che Hitler non è un mostro” suona tanto come dire “ha fatto bene a fare ciò che ha fatto”); c) la storica miopia del legislatore italiano non induce a ottimismi; ma anche che d) ogni restrizione della libertà costituisce un vulnus non lieve inferto ai valori della democrazia. Oppure la via della risposta culturale, come in un’autentica assunzione di responsabilità di una società realmente libera (dai suoi demoni) e consapevole, al prepotente ritorno del fascismo. Una soluzione certamente assai più lenta e faticosa, questa sorta di chiamata universale alle armi della dialettica, ma più efficace nel senso della sua potenziale capacità di risvegliare (sempre e ovunque) le coscienze sopite, quelle disgustate, quelle attonite.
Perché o ci teniamo il fascismo o lottiamo per la giustizia. E per la libertà. Tertium, non datur…

(a.f.)

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