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Articolo già pubblicato da “Capoverso”, n. 4 del luglio-dicembre 2002.

 

Quali animali sopravviveranno nel nostro immaginario, si rifletteranno nello specchio delle virtù e dei vizi, secondo vecchie e nuove simbologie, proiezioni di inconscio e di forze occulte?
Quali popoleranno i sogni e le visioni dell’umanità, assurgeranno a figure esemplari, a paradigmi di frustrazioni e colpevolizzazioni, di regressioni, mimetismi e classificazioni? Quanti luoghi comuni, quante comode equazioni si ribalteranno, rimarranno in auge, cambieranno di segno e di segno?
Ci sarà ancora posto, inoltre, per bestiari antropomorfici, per bestie a misura d’uomo, per fabulazioni speculari di un nuovo Esopo o di un altro Fedro? Saranno codificati cataloghi in cui verranno elencate nuove categorie di uomini-bestie o di animali umanizzati, relitti di un millennio durante il quale si sono succeduti razze, specie, incroci, ibridi, sconvolgimenti climatici, etici, comportamentali, storico-politici, geografici, alimentari, culturali, linguistici, psicologici, militari, ecologici, cosmici, interplanetari?


La storia di un millennio che si conclude è anche la vicenda dell’uomo e di ciò che egli ha costruito con tanta capillare perizia (la società organizzata e i suoi conflitti endogeni-esogeni) in rapporto a quei testimoni infanti che ci osservano giudicandoci e interagendo attraverso l’istinto della fuga e della sottomissione, della paura e della fiducia, della diffidenza e dell’affetto, del distacco e della gelosia, della subordinazione e del possesso.
Ci muoviamo tra simboli e proiezioni mitologiche, assiomi proverbiali e irrazionalità pregiudiziali, non utilizziamo strumenti di conoscenza e di approccio adeguati.: il nostro rapporto con gli animali ondeggia tra elegia e opportunismo, lirismo e cinismo, romantica sensiblerie e brutale pragmatismo, verticalismo dogmatico e affettato interanimalismo, compiaciuta superiorità e volubile capriccio à la page.
Occorrerà mutare atteggiamento; anche gli animali si sono scaltriti, smaliziati, ci guardano e attestano, ci fissano e scrutano: sono testimoni e giudici silenti, dicevo, non solo vittime sacrificali e capri espiatori della nostra razionalità malefica, del nostro egotico narcisismo, del nostro presuntuoso intelligere. Gli animali ci guardano, parafrasando il titolo del film di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, come i bambini, con i loro occhi innocenti e stupefatti, con i loro sguardi eloquenti e ammonitori.

Il gatto è già uno splendido esempio di un possibile prototipo dell’animale futuro; in esso si conciliano mirabilmente geometrie e finesse pascaliane, istinto e intelligenza, primitivismo eciviltà, brutalità ed eleganza, impulsività e cautela, quasi una perfetta sintesi di memoria atavica, senso dell’essere (l’hic et nunc) e proiezione futura. O, meglio, la tripartizione cronologica si riassume in un sincretico sentimento della vita, in cui convergono simbioticamente esperienza ancestrale, corporeità contingente e misura avvenire: la prima sottoforma di rimembranza larvale, la seconda di necessità esistenziale, la terza di prefigurazione incorporea.
Ecco, pare che l’umanità nel prosieguo del primo millennio abbia perso di vista i cosiddetti valori, i quali altro non sono che un condiviso aderire a ritmi e flussi vitali, generazionali, che si tramandano con l’urgenza del sangue, delle consuetudini e delle ritualità: una sorta di ubi consistam cromosomico, istintuale, che garantisce senza alterazioni la continuità della specie, la successione degli individui, la costanza delle abitudini e dei movimenti circadiani, istanze naturali come l’euritmia del respiro e il pulsare del cuore.
Da una parte il retaggio di ciò che il tempo consuma, dall’altra lo scorrere inarrestabile di ogni situazione presente, nella quale è come se si smarrisse ciascun istante che ci sembrava ancora lontano; tutto è già avvenuto, è già nella memoria del cosmo, del deus absconditus che lo governa e regge, legge fisica e chimica insondabile, spiritus mundi che lo anima e lo innerva, lo sostanzia.

Gli animali, ormai, più di quell’essere robotizzato e computerizzato, snaturato e alienato che è diventato l’uomo, sono l’unica salvezza che ci rimane, l’ultima verità, l’estremo appiglio, prima della totale standardizzazione massmediale e neoconsumistica, prima della paralisi di quegli agonizzanti corpi clonati che hanno smarrito il contatto con la terra, l’humus, e che appaiono completamente disumanizzati, ai quali è stato sottratto l’elemento primo di cui sono plasmati: prodotti di laboratorio, esseri in vitro, replicanti e ultracorpi che hanno colonizzato il pianeta, quasi conquistato definitivamente anche il regno vegetale e animale, dopo aver espugnato quello umano, e che forse espanderanno il loro potere sull’universo, fino a sottometterlo e a predarlo.
Intanto, muti e stupiti, con i lro sguardi ipnotici gli animali ci guatano nell’animo; magari, al più presto s’attuerà la riscossa, la revanche della terra offesa, della natura tradita, dell’ecosistema distrutto, benché sia già tardi, prima che quei cloni spersonalizzati azzerino veramente tutto, facendo tabula rasa, deserto lunare e atomico, di ogni residuo spazio vitale, di una ancóra possibile dimensione esistenziale.
Ci volgeremo, quindi, a riappropriarci di noi stessi, della nostra vita e della nostra morte, entrambe stravolte e rimosse da secoli di ipocrisia e dissimulazione? Gli animali da sempre hanno dovuto misurarsi con la sopravvivenza, il principio e la fine, il mistero, soprattutto, della morte, conservando una consapevole dignità, una coscienza profonda, una saggezza che l’umanità ha smarrito nella sua storia; atteggiandosi a superuomo, quidam deus, essere immortale, l’individuo ha perduto la percezione naturale della morte come evento necessario, l’ha sottoposta a una sempre più raffinata e ostentata negazione, come se potesse sopprimerla con la rimozione e la ripulsa.
Rieducarci all’accettazione biologica del nostro ciclo vitale, al dominio di noi stessi come esseri mortali, è condividere questa suprema esperienza della luce e delle tenebre, del movimento e della stasi, in un destino comune e ineluttabile.

Pino Corbo

 

 

Pino Corbo, nato a Cosenza nel 1958, è scrittore, poeta e saggista di grande sensibilità oltre che apprezzato docente di lettere.

Come poeta ha pubblicato tre libri (“Cerco nel vento”, Schena, Fasano (BR), 1978; “Il segreto del fuoco”, Hellas, Firenze, 1984; “In canto”, Campanotto, Udine, 1995) e sei plaquettes (“Autodafé”, En plein, Milano, 1996; “Di notte”, Pulcinoelefante, Osnago (LC), 1997; “Desiderio”,  Pulcinoelefante, Osnago (LC), 2000; “Epifanie”, Pulcinoelefante, Osnago (LC), 2002; “Iscrizioni dell’ora”, Sagittario, Genova, 2004; “Dittico”, L’Arca felice, Salerno, 2008). Come saggista ha al suo attivo “Il mondo non sa nulla. Pasolini poeta e ‘diseducatore’”, Ionia, Cosenza, 1996. Sul suo lavoro su Pasolini si incentra “La visione pedagogica di Pasolini. Riflessioni sul saggio Il mondo non sa nulla. Pasolini, poeta e ‘diseducatore’” di Rocco Taliano Grasso (Mocabor Editore, Collana Noisette, 2017).
È stato redattore delle riviste “Inonija” (CS), “Quaderno” (MN) e “Il rosso e il nero” (NA). Attualmente lo è di “Capoverso” (CS).
Collabora all’Annuario di poesia di Giorgio Manacorda e a numerose riviste di letteratura.

 

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