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I 92° premi Oscar sono alle spalle e possiamo provare ad analizzarli in modo un po’ obiettivo.
È necessario perché molto, troppo a mio parere, entusiasmo si è venuto a creare attorno alle decisioni della Academy. Non so quanti giornali e trasmissioni radiofoniche e televisive hanno annunciato il premio come Miglior Film a Parasite con l’altisonante slogan “primo film non americano a vincere l’Oscar più importante”!
Ecco, non è vero. Parasite, film di Bong Joon-Ho di produzione sudcoreana, non è il primo film non americano a vincere come miglior film. Ci sono stati film inglesi (Amleto, Lawrence d’Arabia, Il discorso del re…), francesi (The artist), persino una coproduzione Cina-GB-Italia (L’ultimo imperatore) premiati con la statuetta più importante. Parasite è il primo film in lingua non inglese a trionfare e solo perché The artist era un film muto, altrimenti non avrebbe avuto neanche questo primato. Non voglio sminuire l’importanza del premio, ci mancherebbe, ma solo metterlo nella giusta ottica.

Taika Waititi and Roman Griffin Davis in the film JOJO RABBIT. Photo by Kimberley French. © 2019 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved

Il film sudcoreano è un ottimo prodotto. Diretto in modo eccellente, interpretato ottimamente, sceneggiato benissimo. E, dato che di parole tratta principalmente questo blog, voglio concentrarmi sui film vincitori per le sceneggiature: Parasite per lo script orginale, Jojo Rabbit per quello non originale. Due lavori che hanno qualcosa in comune. Intanto, il regista, in entrambi i casi, è anche sceneggiatore. In secondo luogo, hanno una spiccata nota ironica nonostante la serietà dell’argomento trattato.

Nel caso di Parasite, lo scontro di classe e le differenze sociali. Per Jojo, addirittura il nazismo. Per finire, in entrambi i film i personaggi vivono in un delicato equilibrio tra realtà e fantasia. Più smaccato in Jojo Rabbit, storia di un bambino nazista che ha come amico immaginario addirittura Hitler, meno evidente in Parasite, dove tutto avviene in modo più simbolico. E questo tratto particolare, questa commistione tra realtà e fantasia o distorsione della realtà, lo ritroviamo anche in altri film candidati. Basti pensare al meraviglioso C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino che ritorna a modellare la Storia a modo suo, come nello splendido Bastardi senza gloria, reinventando la strage di Cielo Drive e demitizzando la figura di Charles Manson e dei suoi adepti. Ma anche quello che a prima vista sembra il film più realista, il bellissimo film bellico 1917 di Sam Mendes, contiene una mistificazione della realtà, seppur “nascosta” in bella vista. Il film, infatti, si svolge in un unico, lunghissimo piano sequenza, cioè senza stacchi di scena, il che implica l’uniformità tra il tempo narrato e la durata del film. Ma, in realtà, l’azione dura diverse ore, e lo capiamo dal passaggio tra il giorno e la notte, ma non ne avvertiamo lo sfasamento temporale durante la visione.

Un mero esercizio di tecnica? Forse, ma di grandissimo valore. E che dire di Joker, premiato con le briciole oltre all’imprescindibile Oscar per Joaquin Phoenix? Fino alla fine, anzi anche dopo, non sappiamo se quello cui abbiamo assistito è solo il delirio di un folle oppure è davvero accaduto. Ancora un esempio dell’esigenza del cinema contemporaneo di mescolare piani di realtà diversi e non solo a livello visivo, ma di scrittura. Non è un caso che un film strutturalmente classico, seppur di ottima fattura, come The Irishman di Martin Scorsese è stato completamente ignorato, nonostante le 10 nomination. Hollywood ha voluto evidenziare un cambiamento? O ha solo agito come il Gattopardo, cambiando tutto affinché non cambi nulla? Personalmente, propendo per la seconda ipotesi.

 

I premi a Parasite (ripeto ottimo film, ma non il migliore dell’anno, a mio parere) sono una risposta alla politica xenofoba di Trump e un riconoscimento a un autore che, seppur estremamente orientale, usa un linguaggio cinematografico non così differente da quello occidentale. Vedremo il prossimo anno se davvero Hollywood si è aperta a nuove cinematografie. In fondo, altre volte l’Academy si è messa la coscienza a posto con premi riparatori, come nel 2017 e lo scorso anno con i premi ai non protagonisti dati a attori afroamericani, oppure con l’Oscar alla regia a Kathryn Bigelow, unica donna in 92 anni a ricevere il premio. Ma quei premi hanno significato un reale cambio di tendenza? No, tanto che quest’anno solo un’attrice afroamericana era presente nelle nomination e dopo la Bigelow nessuna altra donna si è neanche avvicinata alla statuetta per la regia. E mentre il mondo plaude alla vittoria di Parasite, nessuno si accorge che due dei migliori film dell’anno sono stati completamente ignorati.

 

 

L’indipendente Uncut gems con un Adam Sandler che avrebbe meritato quanto Phoenix la statuetta e, soprattutto, a mio parere, l’incredibile Midsommar di Ari Aster, horror di straordinaria fattura a livello di scrittura, direzione, fotografia e interpretazioni. Un film che paga l’ostracismo ormai insopportabile della Academy verso il genere horror, poche volte nominato e ancor meno premiato. Ecco, abbattere la barriera del genere sarebbe una bella sfida da raccogliere se Hollywood volesse davvero cambiare.

 

Claudio Evangelista

 

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