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E’ tutto nel titolo. O, forse, no.
Nell’estate del 1969 a Bethel, circa 70 km dalla cittadina di Woodstock negli States occidentali, si tenne il più grande raduno musicale di tutti i tempi.
Fin qui nulla di strano.
Qualcosa di epocale deve accadere almeno una volta in un secolo.
Il secolo scorso, in questo, ha pure ecceduto.
Chiariamo alcuni punti, innanzitutto. Il Festival d’Arte di Woodstock era una realtà consolidata dai primi anni’60. Niente di eccezionale. Un evento modesto del freddo e piovoso Stato di New York. Non era, di sicuro, una manifestazione da grandi numeri.
L’idea di un qualcosa di più grande, di più economicamente “gradevole”, nacque quando due tizi, un certo Roberts e Rosenman in primis, dati i primi annunci sul New York Times e sul Wall Street Journal, presentatisi a tutti come “Challenge International LTD”, “uomini giovani con capitale illimitato che cercano interessanti opportunità, legali, d’investimento e proposte di affari”, furono contattati da altri due capitani coraggiosi, Michal Lang e Artie Kornfeld, e costituirono la Woodstock Venture, una semplice iniziativa commerciale.
Lo scopo era fare soldi. Tipica mentalità americana.
Fu questo che portò la comunità di Woodstock con una legge locale a vietare il concerto nella Contea di Orange a e far spostare l’idea nella zona di Bethel, con la buona volontà di due agricoltori del luogo, Tiber e Yasgur che misero a disposizione i loro immensi terreni per l’organizzazione.
Ecco la prima contraddizione. I soldi e l’amore.
Abbandonarono l’idea dei soldi a valanga quando si accorsero che una marea umana di giovani si stava dirigendo come locuste affamate sul luogo del concerto. Eppure quei duecentomila biglietti erano stati già venduti.

Fatti, leggende, statistiche.

Il numero dei partecipanti è ancora non calcolabile. Si va dai quattrocentomila fino alla soglia di un milione di presenti.  La letteratura successiva ha trovato poi un accordo di media intorno ai seicentomila.
Numeri imponenti. In questo caso l’aggettivo “epocale” è perfettamente aderente alla realtà.
Non era mai accaduto e, tantomeno, non lo si poteva nemmeno immaginare.
Fatti: parteciparono trentadue artisti. Orari improvvisati ma, su quel palco, si esibì tutta la scena musicale alternativa dell’epoca. Dagli USA fino al Regno Unito.
Il film girato e montato da Michael Wadleigh nel 1970 è un buon ritratto di ciò che avvenne. Anche perché fa immaginare in maniera piuttosto netta anche quello che non avvenne.
Se pensate che tutte le migliaia di ragazzi siano state in religioso silenzio ad ascoltare musica per tre giorni di seguito, dal 15 al 18 agosto del 1969, uno in più rispetto a quanto previsto dal programma, ebbene, la realtà dice ben altro La testimonianza che ho sempre considerato più attendibile è quella di Eddie Kramer, non proprio l’ultimo arrivato, non un dilettante allo sbaraglio, tantomeno un piantagrane senza motivo.
Era un produttore. Innamorato della musica, si era introdotto nello staff dell’organizzazione solo per registrare il concerto. Un ottimo curriculum alle spalle. Aveva lavorato con i Beatles, i Led Zeppelin, i Rolling Stones ed era l’ufficiale braccio destro di un certo Jimi Hendrix.
Ancora oggi è l’unico custode della sterminata produzione musicale inedita del genio americano, il mancino della chitarra per eccellenza, l’uomo che non conosceva il significato di un pentagramma ma che era capace di far impallidire qualsiasi maestro di composizione. L’unico ad affermare per primo che l’uomo di Seattle, di origine cherokee e afroamericana, sarebbe in poco tempo divenuto una pietra miliare del jazz.
Eddie Kramer ha una visione ben netta dell’evento “giovanile” del secolo.
L’ha definito “Tre giorni di droga e fango: Woodstock è stato un incubo!”

Rincara e specifica la dose: “La mia missione era incidere su nastro tutto quello che avveniva sul palco. Gran bel lavoro in teoria, ma quando sei l’unico essere umano lucido in mezzo a 500 mila strafatti, le cose si complicano. Artisti, manager, security, staff: tutti fuori di testa. Ricordo un mixer in fiamme e un gruppo di tecnici in preda all’LSD che gli danzava intorno. Alla domanda: nessuno lo spegne? la risposta fu: “Noi non rubiamo il lavoro alle nuvole”
Tecnicamente, e non occorre un orecchio assoluto, il concerto tutto fu tranne che un omaggio alla musica. Semplice improvvisazione.
Anche l’improvvisazione è un’arte ma per Kramer fu leggerezza, dilettantismo, superficialità da parte di bands di tutto rispetto che, pur sotto l’effetto di droghe allucinogene, quando si trattava di registrare in studio, sapevano fare bene il loro lavoro.
Ritchie Havens, scomparso qualche anno fa, che fu il primo a esibirsi ripetendo la parola “freedom”, del suo brano omonimo, non si sa quante volte. C’erano Baez, Santana, Ravi Shankar, i Creedence Clearwater Revival. Ne dico alcuni. Pete Townshend dei The Who scaraventò dal palco Abbie Hoffmann, il leader hippy che voleva fare un comizio per l’attivista John Sinclair, chiuso in carcere.
Merda e fango, dice Kramer.

 

 

Tutto improvvisato, con la stampa tradizionale immersa a capo chino a scrivere di quanto l’evento avesse creato blocchi stradali, caos pubblico, e una massa di capelloni drogati senza un capo unno al comando alla deriva. Osservando il lungometraggio-documentario di Michal Wadleigh, la sensazione di curiosità nel vedere sedute yoga sul fango, giovani madri nude allattare bambini, tende da rifugiati martellate dalla pioggia, affermazioni insensate di chi ha fatto un brutto trip, lascia indubbiamente curiosità, stupore, interesse, un evidente fascino.
Qualcuno sarebbe di certo portato a pensare che fosse davvero un’altra era geologica.
Che davvero ci fosse dall’altra parte dell’Oceano un intero mondo che voleva sul serio vivere
“Tre giorni di pace e musica rock”, come recitava il manifesto degli organizzatori.
Vero. Confusione, merda, pioggia, fango, condizioni igieniche pessime.
Ma la verità resta. Non ci fu panico di massa. Non ci furono morti accoltellati come nel successivo “para-festival” di Altamont tenutosi il 4 dicembre del 1969 dagli Stones per farsi perdonare l’assenza al Concerto dei Concerti,  dove, durante la performance di “Sympathy for the Devil” ci scappò il morto per le intemperanze di un giovane ragazzo e della reazione folle del gruppo di ordine degli Hell’s Angels, un gruppo di bikers che solo uno scellerato avrebbe scelto.
La verità sulla mancata partecipazione degli Stones a Woodstock è più semplice.
Jagger stava girando un film. Keith Richards stava per assistere alla nascita di suo figlio.
E, se vogliamo dirla tutta, gli organizzatori non avevano in simpatia gli Stones per la nota aggressività musicale dei loro brani.
Anche Dylan non poté partecipare. Aspettava la nascita di suo figlio. Nel suo caso, il concerto era praticamente sotto casa.
C’è chi rifiutò la partecipazione sul palco per i motivi più svariati.
I Led Zeppelin per superbia e per soldi, i leggendari Jethro Tull di Ian Anderson per via del noto disprezzo del leader Ian Anderson per gli hippies.
C’è l’antropologia del “Fenomeno Woodstock”.
Tutto il retaggio della rivolta alle regole della tradizionale famiglia americana con la casa di legno bianca e il prato verde, la musica rock come gesto di liberazione ed espansione della propria libertà, la frantumazione delle convinzioni puritane, la fuga dall’oppressione delle convenzioni, il desiderio profondo di reagire al sistema senza violenza ma vivendo “sulla strada”.

 

 

In Europa andava diversamente.
Il maggio parigino del ’68 si era tramutato subito in lotta politica e ideologica.
A Woodstock non c’era politica. C’era solo la sensazione di un Eden che sarebbe durato in eterno.
Eppure era nato per soldi.
Mi sono spesso domandato che fine abbiano fatto quei ragazzi.
Oggi hanno 70 anni e più… Voteranno Democratico. O avranno scelto Trump. O non saranno sopravvissuti ai viaggi lisergici continuati. E poi, a quei tempi c’era il Vietnam.
Il tempo passa e fa il suo lavoro.
C’è nostalgia nei fotogrammi di Wadleigh. La si percepisce nettamente.
L’idea di una grande gita fatta all’ultimo momento, senza programmazione. Tanto per divertirsi l’ultima volta. Alla grande. In modo memorabile
Viene un momento in cui si diventa adulti. La constatazione di Kramer è lapidaria. Con Woodstock tutta l’utopia dei ’60, l’eredità culturale del film “Il laureato” con Dustin Hoffman, finì nella pioggia.
Da allora la musica rock non sarebbe stata più un’occasione di liberazione dal Sistema.
Soltanto moda e affari.
Gli anni successivi partirono così. Ottima musica. Ma solo musica.

Fabio Colosimo

In memoria di Luigi Stabile, per tutti “Gigetto”, un uomo che di rock ne capiva davvero.

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