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“Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c’è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremita. Pavese si è ricordato di quant’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un attimo di credere che i suoi totem e tabù (…) fossero inutili bizzarrie. (…) E ne sono nati questi Dialoghi.”

 

Con queste parole, Pavese stesso presentava la prima edizione dei Dialoghi con Leucò. Era il 1947. Ed è pressoché ovvio che, in anni del genere (anni in cui trionfava l’ideale dell’intellettuale engagé, progressista, in ideale comunione d’intenti col PCI), un’opera come questa non potesse essere presentata in altro modo che come un “capriccio”, un “quarto di luna”. Questo elegantissimo capriccio ha tuttavia una tale, rara intensità poetica, una potenza talmente disarmante che è impossibile spiegare la sua genesi in una semplice prova di abilità.
I Dialoghi con Leucò sembrano attingere direttamente alla fonte primigenia d’ispirazione dell’uomo-intellettuale Cesare Pavese, svelare la sua terribile “musa nascosta” che nei suoi altri romanzi è coperta da uno strato di riferimenti allegorici.

Il terreno dello svelamento è, significativamente, il mito. Esplorando il repertorio della mitologia greca – con un gusto, direi, euripideo – Pavese infonde alito vitale a personaggi come Edipo, Endimione, Saffo, Orfeo, Odisseo, Dioniso, Teseo, Eracle, Esiodo. Dà loro la parola, in ventisei brevi dialoghi, ma si tratta sempre una parola speciale: parola che non è veicolo di azione, ma creazione primordiale, atto esoterico e terribile come la realtà che disvelano. Non c’è, come nelle Operette Morali di Leopardi (illustre precedente di dialoghi che Pavese deve aver tenuto in considerazione), un tentativo di teorizzazione filosofica: semplicemente, nel mito e nei personaggi che ne sono la scarnificata, sbigottita espressione, il mondo è mostrato nel suo orrore, nella sua grandiosa ineluttabilità.
La dialettica (sempre a due, sempre sull’orlo del vuoto e del silenzio) che prende vita sulle pagine di Leucò è quella tra necessario e impossibile, tra vita e destino. Le tre fasi della vita del mondo (“Il mondo ha stagioni come i campi e la terra”, ricorda Mnemòsine ad Esiodo) che si lasciano presagire nei dialoghi sono tutte possibili declinazioni di questa dialettica: un mondo dominato dal caos (il mondo di titani e degli uomini prima dell’Olimpo, prima del potere di Zeus), il mondo del conflitto tra gli dei e gli uomini, e un mondo senza dei (quello dell’ultimo dialogo: il nostro mondo, forse).

 


Gli dei olimpici, in particolare, rivestono in questo universo un ruolo tutto particolare.
Titani e uomini, in fondo, appartengono allo stesso mondo, il mondo del furto del fuoco, della rupe-condanna, della stretta parentela data dal sudore e dalla sconfitta. Ma gli dei, i “nuovi” dei dell’Olimpo sono qualcosa in più e qualcosa in meno: non è loro la possibilità di vivere e farsi artefices di un destino proprio. Essi, semplicemente, sono il destino. Essi incarnano il terribile, l’inconoscibile, qualcosa che trascende l’uomo e senza via di scampo lo annienta. Questo il significato dei due dialoghi-fratelli “La belva” e “Il fiore”, secondo me i più belli: nel primo, Artemide-Selene-Diana, la dea dai mille nomi, diventa simbolo dell legame indissolubile e primitivo tra sesso e sangue: dopo averla incontrata, Endimione non potrà più tornare tra gli uomini ma soltanto vagare per i boschi come un’ombra, ed aspettare il sonno come una condanna temuta e al contempo desiderata; nel secondo, Apollo, che sa sorridere ma non piangere, si accosta il giovane Iacinto perché vede in lui il fiore chiazzato (il destino) in cui il fanciullo si trasformerà dopo che il dio ne avrà causato la morte.
C’è, nei Dialoghi con Leucò, tutto lo schianto della passione, del dolore – un dolore tutto novecentesco, che reinterpreta il mythos alla luce di Freud e Jung – ma al contempo la lucida, cristallina bellezza di un capolavoro della statuaria classica. Gli eventi non accadono ma sono narrati o presagiti: è la parola esoterica, come dicevo, che diventa sortilegio e maledizione, evocazione del mondo e delle forze che al suo interno si agitano.
Per questo, mi trovo del tutto in disaccordo con chi, come Emilio Cecchi (“Paragone”, 1950, pag.21), giudica questi Dialoghi un “prontuario e catalogo” e non “una vera opera d’arte”. Fu questo “catalogo” che Pavese portò con sé in quell’hotel torinese in cui, la sera del 27 agosto 1950, pose fine alla sua vita.

Nel raccontare attraverso eroi, dei e titani il male dell’uomo contemporaneo, Pavese compone un canto antico e nuovo: un vero gioiello della letteratura italiana, capace di suscitare emozione in ogni pagina con uno stile affascinante, pulito e al contempo dotato di straordinaria potenza semantica. Una lettura indimenticabile che è anche ascolto di una dolente elegia: quella di un mondo in cui dominava il divino e la superstitio, è vero, ma in cui, forse, la vita era ancora autentica, e l’eroismo e la speranza erano possibili.

 

– Eppure di questa paura ci tocca sorridere, quando pensassimo all’angoscia della gente di un tempo cui tutto quello che toccava era mortale. Gente per cui l’aria era piena di spaventi notturni, di arcane minacce, di ricordi paurosi. Pensa soltanto alle intemperie o ai terremoti. E se questo disagio fu vero, com’è indiscutibile, fu anche vero il coraggio, la speranza, la scoperta felice di poteri, di promesse, d’incontri. Io, per me, non mi stanco di sentirli parlare dei loro terrori notturni, e delle cose in cui sperarono.
-E credi ai mostri? Credi ai corpi imbestiati, ai sassi vivi, ai sorrisi divini, alle parole che annientavano?
-Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Se un tempo salirono su queste alture di sassi o cercarono paludi mortali sotto il cielo, fu perché ci trovavano qualcosa che noi non sappiamo. Non era il pane, né il piacere né la cara salute. Queste cose si sa dove stanno. Non qui. E noi che viviamo lontano lungo il mare o nei campi, l’altra cosa l’abbiamo perduta.
-Dilla dunque la cosa.
-Già lo sai. Quei loro incontri.

Laura Ingallinella
Pubblicato su “CriticaLetteraria” il 13 maggio 2009

 

Cesare Pavese – Scrittore italiano (Santo Stefano Belbo 1908 – Torino 1950). Ha svolto un ruolo essenziale nel passaggio tra la cultura degli anni Trenta e la nuova cultura democratica del dopoguerra. La sua partecipazione al presente si è sempre legata a un profondo senso della contraddizione tra letteratura e impegno politico, tra esistenza individuale e storia collettiva, attraverso una tormentosa analisi di sé stesso e dei rapporti con gli altri e una ininterrotta lotta per costruirsi come uomo e come scrittore.
Opere: (“Paesi tuoi”, 1941), “La spiaggia” (1942), “Feria d’agosto” (1946), “Il compagno” (1947), “Dialoghi con Leucò” (1947), “Prima che il gallo canti” (1949), “La bella estate” (1949), “La luna e i falò” (1950), “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” (post., 1951), “Notte di festa” (post., 1953), “Festa grande” (in coll. con Bianca Garufi, post. e incompiuto, 1959),Ciau Masino” (post., 1968). Scritti critici: “La letteratura americana e altri saggi” (post., 1951); il diarioIl mestiere di vivere” (post., 1952), l’epistolarioLettere” (2 voll., 1966: I, 1924-1944, a cura di L. Mondo; II, 1945-1950, a cura di I. Calvino).   

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