Asterisco 2.0, dunque.

Quando nasce un nuovo progetto (piccolo o grande, non importa) è del tutto naturale chiedersi perché, quali ragioni o bisogni o interessi spingano un gruppo di persone – noi ci autodefiniamo “un collettivo”, espressione démodé sì, ma quanto basta per inorgoglirci di un presente in cui ci sentiamo la giusta sintesi fra le mai tradite radici e una modernità “sofferta” ma non di maniera – a imbarcarsi in un’avventura che, lo diciamo subito e a chiare lettere, non insegue né chimere né profitti ma intende distinguersi in un mondo che, proclamata la morte delle ideologie e offerto un lavoro al cosiddetto pensiero debole, sembra essere ritornato ai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini. Come in un giro di rivoluzione, si torna là dove si era partiti. E fine corsa.

Nel nostro caso, per quel che concerne Asterisco 2.0, il perché e il come di questa scelta sono questioni indissolubilmente legate fra loro.

Proviamo a rispondere così: perché c’è bisogno, di fronte alle trappole della disinformazione tese in ogni dove (senza alcuna distinzione sensibile tra dilettanti e professionisti), di uno spazio in cui a parlare, con passione e con competenza, siano tutti quelli che non vogliono farsi inghiottire dalla confusione, dal pressapochismo, dal corto circuito provocato da miliardi di dati diffusi e raccolti in modo incontrollato; cosicché vogliamo essere e agire come uno spazio aperto (ai più diversi contributi: idee, analisi, confronti, suggestioni, provocazioni, suggerimenti per una sopravvivenza ad hoc) e libero nel senso di indipendente, di non asservito, di sciolto dai legami di lobbies, partiti, movimenti e di chiunque abbia, come direbbe il grande Guccini, “un tiramento”. Non un giornale, quindi, perlomeno non nel senso canonico del termine, ma un blog di blog, dove informazione e riflessione, attualità (anzi contemporaneità) e approfondimento coabitino in un connubio delicatissimo, non facile  da realizzare ma entusiasmante da pensare e da inseguire.

Avviso ai naviganti: dentro Asterisco 2.0 ci sarà spazio pure per la stretta attualità e per le notizie locali e territoriali, là dove sarà doveroso darne conto e col rilievo che riterremo utile alla comprensione dei fatti esposti. Pubblicheremo, perciò, le notizie della politica e le opinioni dei politici, senza però subirle supinamente ma riservandoci il diritto-dovere di intervenire dicendo la nostra e ospitando pareri dal basso, nell’accezione di “provenienti da comuni cittadini”. Qui non è di casa la censura, fosse anche sotto mentite spoglie, ma neppure l’irresponsabilità della sinecura.

Tanto a confondere le menti e a “garantire” un’informazione drogata e compiacente corrono già, come mute di cani sulle piste dell’oro del Klondike, un bel numero di servi sciocchi, ammalati di grandi numeri e di scarsa etica.

Per concludere, sull’Europa e le sue difficoltà, il grande sociologo tedesco Ulrich Beck scriveva: «L’Europa non è uno Stato, non è un’unità territoriale, una nazione o una condizione definitiva. Per questo serve una parola nuova: per definire una geometria variabile, interessi nazionali variabili, relazioni interne ed esterne variabili, confini variabili, una democrazia variabile, una concetto di stato variabile e un’identità variabile».

Non sembrano queste parole avvertire tutti noi della necessità di capire più profondamente il tempo che viviamo, della ineludibiltà di trovare un vocabolario nuovo e più adatto al reale? L’Europa non pare essere la metafora di una società alla deriva, disunita e frammentata, incapace di comprendere i mutamenti in corso, rinchiusa dentro formule o insulsamente “newage” o pericolosamente rabbiose?

L’Europa e l’Italia (Calabria compresa), di cui siamo volenti o nolenti tutti cittadini, sono grandi; noi molto, molto, molto più piccoli. Ma si comincia da dove si può; e da dove si deve…