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Pubblicato sul n. 1608 del “Venerdì” di Repubblica, l’11 Gennaio 2019

 

Venezia. «Mi hanno descritto come il presidente più povero della storia, ma la povertà è un’altra cosa, perché a me non è mai mancato il pane. La mia è stata una scelta filosofica, che definirei neo-stoicismo: avere pochi legami con i beni materiali ti permette di concentrarti sugli affetti veri, da dedicare alle persone invece che alle cose».
Il socialista José “Pepe” Mujica, capo di Stato dell’Uruguay dal 2010 al 2015, assurto all’onore delle cronache internazionali per avere sposato da politico scelte di sobrietà e aver tentato di risollevare gli indigenti in nome della redistribuzione della ricchezza, è oggi più che mai un punto di riferimento politico della sinistra nel mondo: la socialdemocrazia è in crisi non soltanto in Italia ma in tutta Europa sotto la spinta delle destre, che hanno assunto facce diverse ma sono tutte guidate da politiche razziste e protezioniste, volte ad aumentare le disuguaglianze. E sembra un antidoto al trumpismo imperante, in cui la figura del leader è per definizione un capitalista che ha avuto successo nella vita, e finge di applicare la propria ricetta al governo del popolo, facendo in realtà i propri interessi.


A dimostrare la rilevanza del personaggio, anche fuori dalla stretta cerchia politica, è la sua celebrazione al cinema: ne La notte dei 12 anni, in sala dal 31 gennaio, il regista Àlvaro Brechner racconta la lunga detenzione di Mujica (interpretato da Antonio de la Torre) e dei suoi compagni guerriglieri tupamaros Mauricio Rosencof (Chino Darín) e Fernández Huidobro (Alfonso Tort), iniziata sotto la dittatura militare nel 1973 e conclusa solo nel 1985. E a lui è dedicato anche il documentario El Pepe – Una vida suprema, in arrivo ques’anno, in cui Emir Kusturica costruisce una specie di agiografia del Mujica privato, che fuma, beve il mate e dimostra l’amore per i suoi campi e per la sua compagna di lotta Lucía Topolansky, quasi questa complicità fosse una causa (o un effetto?) delle idee che lo hanno reso uno statista ammirato nel mondo. «Mi trattano da stella del cinema» mi ha detto l’85enne Mujica quando lo ho incontrato al festival di Venezia, dove sono stati presentati i due film, «ma la realtà è che sono stato baciato da una buona stella: ho cercato soltanto di mettere a posto le cose con una buona politica».

 

Come la definirebbe?
«Una politica che redistribuisce le risorse, perché il mercato lasciato a se stesso tende a concentrare eccessivamente la ricchezza. Se si rimuovono i limiti alla possibilità di investire i capitali, ad esempio, le disuguaglianze aumentano. Ma non è facile perseguire la strada opposta, si guadagnano molti nemici».

I suoi nemici, appunto, dicono che il socialismo ha fallito ovunque…
«La storia dell’umanità è piena di fallimenti. La rivoluzione francese con il suo grido di uguaglianza, libertà e fratellanza, è ancora in cantiere. Questo è il progresso: si fa un passo in avanti e poi si torna indietro, per ricominciare da capo. Io sono un socialista ma non uno statalista, credo nella libera impresa, perché il socialismo non dovrebbe essere in disaccordo con la libertà, e devono essere i privati a gestire le aziende e non lo Stato».

 

Sembra una critica aperta al Venezuela di Hugo Chavez e Nicolás Maduro…
«La questione è più complessa. Ma il problema del Venezuela è storicamente legato al petrolio. In nome del petrolio i venezuelani hanno abbandonato le campagne, hanno iniziato a importare tutto, a smettere di produrre il loro eccellente rum per importare il whisky. Una follia. Col tempo mi sono convinto che avere un eccesso di risorse naturali sia spesso una maledizione».

Non è andata meglio al Brasile, in cui gli scandali hanno travolto la sinistra. Cosa ha permesso invece all’Uruguay di attuare politiche rivoluzionarie, come la liberalizzazione della marijuana?
«Non è stato facile liberalizzarla: per i primi due o tre anni la gente era contraria, ora sono tutti favorevoli. È avvenuto lo stesso nel 1915 con la prostituzione, resa legale e obbligata ai contributi. La nostra è una tradizione di riforme che riconoscono i fatti presenti nella società, anche quando non sono piacevoli. Nel 1910 il presidente iniziò la separazione di Chiesa e Stato, nel 1912 le donne già potevano divorziare, nel 1915 sono state introdotte le otto ore lavorative. Non abbiamo inventato il progresso, abbiamo cercato di rispettarne l’eredità. Da noi dal 1940 ogni due o tre anni si ridiscutono i salari dei lavoratori. Se fossimo un Paese più grande, qualcuno direbbe che abbiamo inventato la socialdemocrazia. Ma siamo piccoli, con solo tre milioni di abitanti e tredici milioni di vacche. Tra le migliori al mondo».

Cosa non siete riusciti a fare?
«Moltissime cose: ad esempio ridurre a sufficienza la povertà, che è ancora al 9 per cento. Ci abbiamo provato, anche se ha significato alzare la spesa pubblica. Il paese ha molti problemi, compreso l’invecchiamento della popolazione. Per fortuna ci salverà l’immigrazione».

 

I politici come Salvini e Orban considerano gli immigrati un problema, anziché una risorsa…
«L’America latina ha storicamente accolto tanti popoli, mentre oggi la parte ricca del mondo è povera nei sentimenti e non può organizzare il rifugio di persone disperate alla ricerca della sopravvivenza. Ma se la globalizzazione esiste, si deve accompagnare alla solidarietà. Quello dell’immigrazione dall’Africa all’Europa è un problema che ha radici antiche nella schiavitù. L’Africa è stata sfruttata troppo a lungo ed è arrivato il momento che venga pagato il debito. I politici europei devono mettere in atto un piano Marshall per salvarla dalla povertà».

Perché hanno successo i Trump?
«Perché purtroppo questa fase dello sviluppo capitalistico ha generato una cultura che impone che il successo nella vita sia essere ricchi e chi non lo è non ha successo. Quindi spesso il percorso della politica viene inteso come un percorso per arricchirsi, ma questo vuol dire uccidere la politica, che è basata sulla fiducia. I politici dovrebbero vivere come la maggior parte della gente normale, non come la minoranza privilegiata. Chi ama il denaro dovrebbe dedicarsi ad altro. E poi sa cosa ho capito?».

Cosa?
«Essere ricchi è soltanto un modo per complicarsi la vita».

Intervista a cura di Marco Consoli

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