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Capita sempre più di rado, ma capita ancora, per fortuna, di incontrare uomini e donne che credono in quello che fanno, che si abbandonano al racconto e alla lettura – due facce, in fondo, della stessa sostanza –, che prendono posizione sulle cose del mondo e che guardano ai suoi misteri e alle sua anime, alle sue finestre e ai suoi scorci con meraviglia e interesse. A me, sempre per fortuna, è capitato da poco, pochissimo tempo, imbattendomi in “Lettere minuscole”, libro pubblicato dalla casa editrice Le pecore nere Editorial-Italia. Un incontro per me felice, con il racconto di questo ragazzo che, sullo sfondo dei bombardamenti del ’43 su Cosenza, scopre delle lettere mai recapitate di soldati e finisce col trovare una parte di sé e di un mondo del tutto sconosciuto; con il suo autore, il calabrese di Cosenza Claudio Dionesalvi, e con la co-direttrice della casa editrice italo-argentina che non solo ha dato alle stampe un libro inconsueto e sorprendente, ma che da anni ormai lavora ad un grande progetto culturale costruendo mattone dopo mattone l’unico ponte di cui veramente c’è un bisogno estremo: quello che unisce mondi diversi ma vicini, l’Argentina all’Italia, senza cadere nella trappola dei folclorismi ma cucendo intelligenze e sensibilità, guardando al di là dei confini e delle distanze.
Da qui, il passo verso questa intervista è stato breve e, soprattutto, naturale.

Maria Pina Iannuzzi e Claudio Dionesalvi, durante la presentazione del libro (Foto di Francesco Bozzo)

“Lettere minuscole” è il titolo del suo nuovo libro. Come nasce la storia?
Nasce dalla sofferenza causata da un grave lutto e dalla forte volontà di trovare sollievo, rintracciando spiragli di gioia nei contatti umani che qualsiasi ricerca comporta. Lettere minuscole vuole però convertire il dolore in fiaba, evitare cioè di scaricare la negatività sugli altri. Non è più possibile trattare la scrittura come uno sfogatoio: i lettori e le lettrici non possono diventare gli psico-confessori di chi scrive storie e poesie, visto che ormai, nella vita di tutti i giorni, ciò avviene sempre, milioni di volte al secondo, nella comunicazione social, dove riversiamo angosce, istinti, depressioni e confessioni, pur di appagare la naturale propensione a secernere neurotrasmettitori che provocano in noi piacere, cura, soddisfazione del narcisismo e voyeurismo.
Ha dato una forte spinta all’idea di scrivere il romanzo anche il casuale ritrovamento di misteriose lettere mai recapitate, scritte da soldati prigionieri durante la seconda guerra mondiale.

Al centro del romanzo si muove un personaggio come Pagliaccio, così diverso dall’idea quasi ideal-tipica che oggi si ha dei ragazzi di quell’età…
C’è una parte di me in Accio. Sono io, ex adolescente della generazione X, trasposto nel presente. La passione di Accio per la storia non è un tratto raro. Oggi ci sono suoi coetanei che la amano e la studiano ancora. Dovremmo stimolarne di più la conoscenza, perché tanti dei mali della nostra società sono dovuti all’oblio, alla mancanza di un prima, all’assenza di responsabilità e cause nei fatti e dei fenomeni. Lavorando da tanti anni con i ragazzi nelle scuole medie, andando spesso nelle superiori dove i colleghi e gli studenti mi invitano a parlare, avendo una figlia 15enne, ho un rapporto quotidiano e diretto con i ragazzi del presente. Sono molto più sensibili, emotivi, profondi, esistenzialisti e ribelli di quanto possa sembrare. La rappresentazione stereotipata dello zoomer smanettone, superficiale e anaffettivo è una proiezione nostra su di loro. Serve ad autoassolverci. Il mondo degli adulti è altrettanto phonepatico, succube dei consumi, ma non potendo ammetterlo, se la prende coi ragazzi.

Il suo romanzo è evidentemente tante cose insieme. È (in-)consapevolezza, riflessione, viaggio. È scoperta. Memoria e coraggio…
Sì, amore, memoria, morte, guerra e mutamenti si intrecciano. Provando a cucire il tempo, rivelano lacerazioni tra passato e presente. Sarebbe fuorviante affermare che è un romanzo autobiografico. In ogni storia l’autore deve per forza calare una parte rilevante della propria esistenza. Assemblare solo frammenti di vite altrui è irriguardoso. Non si possono inscenare le vite degli altri, come burattini, mantenendosi estranei alla fabula. Nel racconto provo a restituire la terza dimensione e una continuità alla narrazione dell’umano, che di solito ormai affidiamo a immagini di scarsa durata e profondità. Penso alle cosiddette “storie” su Instagram. In esse mancano un “prima” e un “poi”. E come la maggior parte delle narrazioni odierne, sono prive di spessore.

Maria Pina Iannuzzi e Claudio Dionesalvi (Foto di Francesco Bozzo)

Più in generale, cosa vuol dire per lei raccontare?
La scrittura nasce sempre dalla volontà di comunicare con un altro o con sé stesso. In ogni caso, rappresenta uno sdoppiamento o addirittura una proliferazione dell’io. Non c’è ricerca, non esiste viaggio, che non comportino un costante gioco di entrata e uscita da sé, di scambio tra la propria dimensione interiore e il mondo esterno. Il racconto è uno dei possibili mezzi di transito.

Oltre che scrittore, lei è anche un prof di lettere alle scuole medie ed è al contempo noto il suo impegno sul versante della scolarizzazione dei ragazzi di origine Rom. In Calabria, mi pare.
Come dire: ai confini dei confini.
L’incontro, come atto di reciprocità, è chiaramente la condizione senza la quale non c’è relazione né civiltà. Ma l’integrazione è possibile? E se sì, a quali condizioni?
“Quanto bene e male / nel bene e nel male”, canta Madame. L’integrazione c’è stata. Ciò che resta di un’antica cultura, quella dei rom, si è talmente integrato nel nostro sistema di vita da sparire quasi del tutto. Dei 200mila italiani di origini rom, oggi solo 40mila vivono nei campi o nelle baraccopoli. E anch’essi vorrebbero abitare una casa. Tutti gli altri rom ce l’hanno un’abitazione “normale”, lavorano, conducono esistenze ordinarie. Rimangono però su di loro lo stigma, il razzismo, i pregiudizi. Che si possono contrastare solo favorendo l’incontro. Nelle scuole va molto di moda la parola “inclusione”. Io preferisco la “compatibilità”. E sono d’accordo con lei: c’è un gran bisogno di relazione. Anche perché a breve noi lavoratori cognitari saremo sostituiti dalla macchina, dall’intelligenza artificiale. Come già accaduto negli ultimi due secoli, potremo continuare ad avere un ruolo soltanto se renderemo artigianale, relazionale, il nostro lavoro. Se “restiamo umani” è difficile che la macchina riesca a sostituirci.

A proposito di incontri.  Com’è stato il suo con  Le pecore Nere Editorial e com’è nata l’odierna collaborazione?
È uno dei regali più belli che questo libro mi ha donato. È un onore e un piacere conoscere Maria Pina Iannuzzi e Regina Cellino, collaborare con loro. Sono persone cariche di energia ed entusiasmo, serissime nel lavoro che svolgono. Con Maria Pina, da un paio d’anni, insieme ad altre case editrici indipendenti, a quattro librerie cosentine e all’organizzazione sociale e politica La Base, lavoriamo alla costruzione del festival letterario Laudomia. Stimo molto le Pecore Nere. È una casa editrice che realizza “ponti tra gli oceani”. Ne abbiamo bisogno. Il neoliberismo, pur di alimentarsi, sta seminando nuove guerre e confini dappertutto. La scrittura può dare una mano ad abbatterli. E poi gran parte della produzione editoriale calabrese stenta a viaggiare oltre il Pollino. Sotto il manto lanoso delle pecore nere magari può andare al di là dei confini di questa regione che rimane maledettamente isolata dal resto del pianeta.

(Foto di Francesco Bozzo)

Ritiene che la sua scrittura sia adatta ad una trasposizione in chiave cinematografica? Io ritengo di sì. Com’è il suo rapporto con quel genere di linguaggio?
La ringrazio molto. A me piace intrecciare reale e surreale, praticare una scrittura che innervi l’oralità, vivere le storie che racconto e narrarle per viverle. A teatro qualcuno ha già provato a tradurre in drammaturgia i miei testi, ispirandosi alle storie che scrivo o plasmandole in reading. Di recente lo hanno fatto gli attori Silvio Stellato ed Ernesto Orrico. Qualche anno fa, anche il compianto regista Eduardo Tarsia.
Mi piacciono molto i linguaggi del cinema, quasi quanto quelli del fumetto. WuMing1 ha paragonato il mio stile alle vignette del grande Jacovitti.

Cosa c’è nel suo futuro, di scrittore e di docente? Come immagina il suo percorso nel medio e nel lungo termine?
Un insegnante di scuola media rimane lì, per tutta la vita. Non può fare carriera. Può provare a diventare preside, ops … dirigente, però a qual punto il suo rapporto con la scuola si esaurisce: diventa una figura ibrida tra burocrate, manager, provveditore e amministratore di condominio. Sebbene io mi mantenga insofferente e ostile verso la scuola-azienda e i suoi rigurgiti da “The Wall”, con i miei alunni ho un rapporto bellissimo. Mi diverto molto con i ragazzi, nonostante lavorare con loro, in una società impoverita e incattivita, stia diventando sempre più faticoso. A scuola e fuori, mi considero un operaio della cultura. Non mi definisco “scrittore”. Sono solo una persona che ama scrivere, leggere, parlare e ascoltare. Continuerò a farlo. Non ho ambizioni. Sono felice così come sono.

Intervista di Antonello Fazio

 Un grazie grande grande
a Maria Pina Iannuzzi e a Claudio Dionesalvi
per la disponibilità, la sensibilità, l’attenzione

 

 

Claudio Dionesalvi. Nativo di Cosenza. Mediattivista, insegnante di Lettere nella scuola media, ultrà del Cosenza Calcio, già militante del Centro Sociale Autogestito “Gramna”, impegnato nella scolarizzazione dei bambini di origini Rom, tra i fondatori dell’associazione Coessenza. Collabora con diverse testate, tra cui “Il Manifesto”. È direttore del semestrale “Registro Sconnesso”.
Ha pubblicato numerosi titoli, fra i quali: Mammagialla (Rubbettino Editore); Za Peppa. Come nasce una mafia (Coessenza); B.D.D. romanzo degli anni zero (Coessenza); Scritti ultrà (Coessenza); Fino all’ultima cabina. Vivere senza telefonino (Edizioni Erranti); L’evaso (Sensibili alle foglie). Ho curato la traduzione di Subcomandante Marcos, Così raccontano i nostri vecchi (Intra Moenia) e l’aggiornamento di Valerio Marchi, Il derby del bambino morto (Alegre).
Il suo blog è inviatodanessuno.it

Le pecore nere editorial. È una realtà editoriale transnazionale fondata nella città di Rosario (Argentina) e approdata da gennaio 2019 in Calabria, a Cosenza, guidata da due giovani donne, l’italiana Maria Pina Iannuzzi e l’argentina Regina Cellino. La casa editrice si propone come spazio letterario aperto a voci differenti, in particolare, alle trame letterarie moderne e contemporanee che consentono di costruire e rinnovare ponti tra l’Italia e l’Argentina. Pubblichiamo autori la cui scrittura abbia un’impronta “Glocal” (globale e locale), ovvero opere che nascono in un territorio definito ma che, al tempo stesso, siano capaci di farci interrogare su questioni universali. La casa editrice nasce non solo come possibilità di ampliare i confini (territoriali, linguistici, culturali) della letteratura, ma è altresì la forma per partecipare attivamente insieme agli autori e al gruppo di lavoro ai cambiamenti che si susseguono rapidi in un mondo sempre più globalizzato. Le Pecore Nere pone, dunque, radici nella fecondità del passato e nella rivoluzione del futuro. In tal senso, l’idea centrale del nostro progetto editoriale è di sviluppare al massimo potenzialità differenti, con uno sguardo sempre attento alle dinamiche letterarie del web e all’editoria tradizionale in un mondo digitale e interconnesso.

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