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… “Signori e signore, benvenuti al Casinò di Sanremo per un’eccezionale serata organizzata dalla Rai, una serata della canzone con l’orchestra di Cinico Angelini. Premieremo, tra le 240 composizioni inviate da altrettanti autori italiani, la più bella canzone dell’anno. Le venti canzoni prescelte vi saranno presentate in due serate e saranno cantate da Nilla Pizzi e da Achille Togliani con il duo vocale Fasano”.

Esattamente con queste parole, alle 22 in punto di lunedì 29 gennaio 1951, Nunzio Filogamo dichiarava aperto il primo festival della canzone italiana. Passano gli anni e subito dopo i giorni della merla, il pensiero volge a Sanremo. Lo so che qualcuno dirà: “non me ne frega proprio nulla del Festival”. Succede per le dita nel naso, succede per le elezioni: Quello? E chi l’ha votato? Di certo non io, io neanche, ah beh neppure io, eppure quello ha vinto, chissà come mai), succede per Festival, allo stesso modo. Ogni anno la stessa storia: io Sanremo non lo guardo.
E ogni anno il Festival sfiora e a volte supera il 50% di share.
Eppure Sanremo segna un raccordo tra diverse generazioni, ed è stato capace di cambiare pelle come è cambiata la nostra società, garantendone una sorta di continuità. Una kermesse (forse l’unica) che ha contribuito a costruire la memoria, la fisionomia culturale di questo Paese. Non solo, negli anni è diventata specchio della nostra società, ben oltre la semplice esibizione canora. Voglio scomodare finanche la sociologia, ribadendo che si presta all’indagine su come la società italiana si sia rapportata al Festival nei vari anni, quelli della contestazione e quelli del riflusso, quelli dell’avvento della televisione e quelli dell’esplosione dei social media.
Dati alla mano, è il programma più seguito dell’anno, ma non solo in termini prettamente numerici, ma anche come capacità di mettersi in connessione col “sentire” del Paese. Ricordate lo scorso anno la probabilità di avere una partecipazione di Zelensky? Poi si fece marcia indietro e tutto sfumò. Quest’anno non sarà da meno, per la sua capacità di rappresentare (sia pure solo per qualche giorno) i temi portanti della comunità nazionale, dalla musica all’attualità, dalla moda alla cultura.
Sanremo, che piaccia o meno, negli anni è diventato un rito.
Secondo l’antropologo irlandese Benedict Anderson è come se i luoghi prendessero vita propria, si riorganizzassero e diventassero quasi dei villaggi “temporanei”, con abitanti “temporanei”, creando una sorta di altra dimensione per un periodo limitato di tempo. Una volta concluso il rituale, proprio come alla fine di una cerimonia, si sa che ci si disperderà consapevoli di ritrovarsi all’appuntamento dell’anno successivo.
Metaforicamente è quanto accade durante il Festival “non guardato” più visto di sempre. Prepariamoci, il rito è alle porte…

 Sasà Calabrese

 Domenico Modugno, “Nel blu dipinto di blu”

 

Ray Charles, “Good Love Gone Bad” (ovvero “Gli amori” di Toto Cutugno)

 

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