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Il teatro  non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita. Così diceva Eduardo De Filippo a chi chiedeva perché avesse scelto quella via per esprimersi. Un altro grande del palcoscenico, Giorgio Strehler, con l’umiltà dei grandi aggiungeva di sapere poco della vita, ma quel poco lo dico.
Credo che nell’intervista che segue, le parole spese dal calabro-lucano Saverio la Ruina, riassumano perfettamente il senso del fare teatro oggi, sia sotto il profilo culturale che civile, in una visione che non separa queste due facce ma ne fa una cosa sola. La Ruina è a tutti gli effetti uno dei migliori autori e interpreti della scena contemporanea, lo è sin dai tempi della Stanza della memoria e de-Viados, espressioni anzitutto di un teatro sincero, di una capacità di racconto e della originalità di un linguaggio che nascono dalla osservazione, dal desiderio   – e la forza – di non nascondersi alla realtà e al contempo di non sostituirsi ad essa.
Negli anni il teatro laruiniano ha dato il suo ininterrotto, schietto racconto di persone come segmenti fragili o forti, ma sempre imprescindibili, di una vicenda corale, producendo, tra gli altri titoli, lavori come Dissonorata. Un delitto d’onore in Calabria, La Borto, Polvere. Dialogo tra uomo e donna, Masculu e fìammina, per i quali ottiene uno straordinario successo di pubblico e di critica. Fino ai giorni nostri quando, sebbene il teatro viva, non diversamente da altri settori della vita sociale, giorni di approssimazione e di cedimento alla necessità di sopravvivere, Saverio La Ruina scrive una cosa come Via del Popolo, magnifico affresco di un mondo che non c’è più in quanto vittima di quella potente mutazione, o degenerazione, antropologica di cui parlava Pier Paolo Pasolini a cui l’Italia non ha saputo o potuto opporsi, né sostituire, verrebbe da dire, una sua nuova identità e coscienza.
Ecco perché che un premio prestigioso riconosca il lavoro e il valore espressi da un teatrante così prodigo e consapevole è evento assolutamente eccezionale, tanto più se è il riconoscimento, l’ennesimo, di un impegno che alla melanconia preferisce la poesia e al rimpianto l’affetto.

Foto di Angelo Maggio

 Il Premio Ubu 2023 come Miglior testo italiano o scrittura drammaturgica per “Via del Popolo”, cosa significa per te anche in relazione ai premi già ottenuti e ampiamente meritati in passato? Come lo hai accolto?
Col tempo dimentichi o quantomeno ridimensioni i premi del passato, soprattutto quando passa molto tempo dall’ultimo ricevuto, quindi diventa una bellissima conferma, o anche una bellissima illusione di non aver smarrito la strada.

Sin dagli esordi, il tuo teatro fa della memoria la sua cifra culturale e stilistica. Mi pare che sia una memoria non malinconica, non compiaciuta, ma una via che percorri di volta in volta per mantenere viva una fiamma, per ricomporre una identità precisa. E “Via del Popolo” ne è una prova esemplare…
Credo che in parte sia dovuto all’essere andato via e poter guardare quello che siamo ed eravamo con il necessario distacco. Che non significa essere indifferenti (al contrario può risultare struggente), ma evitare l’automatismo. Vedere le copie dei Bronzi di Riace ai lati dell’entrata di un palazzo di Cariati se hai sempre vissuto a Cariati può diventare normale. Se  invece il tuo occhio è ‘nuovo’ (e ‘vecchio’ allo stesso tempo), oltre a notarlo in tutta la sua evidenza riesci a metterlo in relazione al mondo cui appartiene e farlo risaltare agli occhi di chi guarda. C’è poi, o prima, la necessità di lasciare testimonianza di voci che col tempo scompariranno, insieme alla loro giusta percezione. Soprattutto nel mondo popolare, la donna calabrese e del Sud in generale è stata vista come succube dell’uomo e un po’ evanescente. In realtà ha sempre avuto una grandissima forza di carattere che si è contrapposta e molto spesso ha sopperito a una nascosta fragilità maschile. Io volevo che queste donne in particolare fossero conosciute e ricordate per quello che sono. “Via del Popolo” dà a queste figure, anche maschili, una dimensione corale, allargandola agli aspetti generazionali, sociali, economici e politici.

Questo tuo ultimo è un lavoro che tipicamente implica rimandi e conseguenze della tua relazione profonda e intima con la tua famiglia, e con tuo padre in particolare, dichiarato ispiratore di storie e personaggi che ti rimbalzano dentro. Com’è nato questo racconto e com’è diventato quello che è in scena?…
Qualche anno fa il Teatro di Roma ha realizzato un progetto dal titolo “L’Italia al lavoro”, chiedendo a un autore di ogni regione uno scritto di trenta minuti in cui raccontasse il suo punto di vista. La mia idea è stata quella di raccontare il cambiamento del mondo del lavoro attraverso i cambiamenti avvenuti in una strada, quella di casa mia. Nello specifico, il processo di globalizzazione che ha segnato il passaggio dalla micro-economia alla macro-economia, determinando non solo la cancellazione delle botteghe artigiane e dei piccoli esercizi commerciali, ma anche delle relazioni che vi avevano luogo. Il progetto è stato presentato al Teatro Argentina nel settembre 2017. Lo scritto è rimasto poi fermo nel cassetto, ma qua e là lo riprendevo e provavo a immaginarne uno sviluppo, arrivato finalmente cinque anni dopo con l’esigenza di raccontare non solo il cambiamento economico, ma anche quello generazionale, politico e sentimentale.

Qualcuno ha detto e anche scritto che un premio ha davvero senso per tutti se in qualche modo e in qualche misura cambia lo stato delle cose. Il riferimento alle difficoltà di trovare, e gestire/guidare, spazi adeguati al proprio percorso umano e artistico e lasciare così un segno culturale ed emotivo, che poi corrispondono alla condizione generale qui in Calabria e al Sud, è estremamente chiaro. Davvero la situazione è così drammatica?
Forse è drammatico dappertutto. In Italia c’è sempre stata un’invasione di campo della politica nella cultura, sia da destra che da sinistra. Anziché invividuare le figure più competenti (che poi comporterebbero la maggiore ricaduta nel territorio di riferimento), si prendono quelle più vicine al partito. Che un premio importante contribuisca a cambiare le cose sarebbe auspicabile, anzi dovrebbe essere la normalità in un mondo normale.

La scrittura è solo il primo momento di un processo creativo che porta alla composizione di una scena. Cos’è la scrittura per te? E cosa comporta in te il passaggio alle altre fasi del lavoro drammaturgico?
Già durante la scrittura dico il testo ad alta voce. Se il corpo si anima, le parole sono teatrali. Se il corpo rimane inerte, sono letterarie. Qui c’è la grande differenza tra il teatro, dove la parola deve essere detta, e il romanzo dove deve essere letta. Nel mio caso, il personaggio fuoriesce al cinquanta per cento durante la scrittura. Prima non pensavo alla scrittura, l’ho fatto per necessità, perché non c’era in Calabria un testo che parlasse dell’argomento che volevo affrontare. O almeno non lo trattava nel modo in cui volevo farlo io. Dedicandomi alla scrittura, man mano ho dovuto mettere a punto uno stile, un linguaggio, una forma che desse ancora più forza ai contenuti. Un processo tra l’altro che mi è venuto naturale. È stata la materia stessa che trattavo a richiedere un certo linguaggio, filtrato dalle mie conoscenze, dal mio gusto e dalla mia sensibilità. Con l’incastro tra scrittura, interpretazione e messinscena il piacere di fare teatro si è moltiplicato.

I tuoi testi, tradotti anche all’estero, si segnalano da sempre per un’esemplare accessibilità, non solo formale. Che sia minimalismo o umiltà, il tuo stile sembra aver scelto un cammino diverso rispetto a una certa scena contemporanea di ricerca e di sperimentazione che suona invece meno diretta e talvolta involuta. Il tuo teatro pare che ci dica che ci si può far capire, che esiste un’altra strada per esprimersi e comunicare…
Avrei sentito come un tradimento parlare della gente comune usando un linguaggio a loro incomprensibile. Metto addirittura alla prova l’autenticità e l’immediatezza della mia scrittura. Vuoi o non vuoi, scrivendo fai continuamente scelte in termini di vocaboli e musicalità, lavori tra istinto e razionalità alla struttura della frase per farla suonare in un certo modo. Un’operazione in parte artificiale. Al contrario, il personaggio, in particolare quello popolare, è di un’immediatezza tale che anche il più piccolo artificio suonerebbe falso. È il motivo per cui faccio la prova del nove con mia madre, depositaria dura e pura del mio dialetto oltre che legittima rappresentante del mondo popolare. Finita la lettura, se alla domanda “Ma’, nùai parlamo a cusì?”, lei riponde “Sì, Savè, ca cum’averima parlà”, ho superato l’esame.

 Dalla “Stanza della memoria” ad oggi cos’è cambiato nel tuo modo di intendere il teatro e di rapportarti al pubblico? E com’è cambiato, se veramente lo è,  il pubblico?
Nel mio modo di intendere il teatro niente, se non una maggiore consapevolezza. Se il testo e la messinscena arrivano alla platea, il pubblico reagisce sempre allo stesso modo. Ad emozionarci, in fondo, è l’autenticità e la forza del racconto. Ma una cosa è stabilire una comunicazione col pubblico altro è presentargli ciò che si aspetta. Possiamo emozionarlo ponendogli domande che alzano il suo livello di riflessione e di comprensione dei fatti del mondo. Anzi, dovremmo. O meglio, dobbiamo.

intervista a cura di
antonello fazio

 

Saverio La Ruina
Diplomato alla Scuola di Teatro di Bologna, prosegue la sua formazione con Jerzy Stuhr e lavora con Leo De Berardinis e Remondi e Caporossi.
Nel 1992 con Dario De Luca fonda a Castrovillari la compagnia Scena Verticale. La compagnia frutto di enormi sacrifici si impegna a portare il teatro nella città, facendo appassionare e partecipare in toto moltissimi studenti castrovillaresi, i quali svolgeranno diverse rappresentative teatrali che in ambito cittadino riscuoteranno notevole successo, degno di nota lo spettacolo “Coro” presso i locali del cinema Ciminelli.
Nelle edizioni 1999 e 2000 della Biennale di Venezia è selezionato tra i giovani registi negli atelier di regia curati da Eimuntas Nekrosius.
Dal 1q99 è direttore artistico, con Dario De Luca, di Primavera dei Teatri, festival sui nuovi linguaggi della scena contemporanea.
Nel 2001 vince,  con Scena Verticale, il Premio Bartolucci per una realtà nuova e nel 2003 il Premio della Critica Teatrale assegnato dall’Associazione Nazionale dei Critici Teatrali.
Nel 2007, vince due Premi Ubu come Migliore attore italiano e per il Migliore testo italiano con Dissonorata. Un delitto d’onore in Calabria, monologo di cui è autore, regista ed interprete.

Foto di Angelo Maggio

Nel 2009  il festival Primavera dei Teatri  vince il Premio UBU.
Nel 2010, con La Borto, monologo di cui è autore, regista ed interprete, vince il Premio Hystrio per la Drammaturgia e il Premio UBU per il Migliore testo italiano oltre ad ottenere una nomination al Premio UBU come Migliore attore italiano.
Nel 2012 vince il Premio UBU come Migliore attore italiano con Italianesi.
Nel 2015 Saverio La Ruina debutta al Teatro Elfo Puccini di Milano con Polvere. Dialogo tra uomo e donna, per il quale riceve due Premi Enriquez: per la drammaturgia e come migliore attore. Sempre nel 2015 La Ruina riceve il Premio Lo Straniero dell’omonima rivista diretta da Goffredo Fofi e il Premio Annibale Ruccello alla drammaturgia.
Nel dicembre 2016 debutta al Piccolo Teatro di Milano Masculu e fìammina.

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