salvatore quasimodo
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C’è un Sud archetipico, paradigmatico, modellato dalla mano della Storia e dall’estro della Natura su calchi non ambigui, foggiati sulle sue più peculiari caratteristiche; un Sud fatto di topoi abusati, ancestrali: la bellezza del paesaggio, l’endemica indigenza economica, , la complessa condizione socio-culturale, il retaggio, anche linguistico, di un’ atavica condizione di dipendenza da un esercito di conquistadores che ne hanno governato, spesso “sgovernato” le sorti, mai davvero, almeno per quest’angolo di mondo, “magnifiche e progressive” come profetizzato da Giacomo Leopardi ne “La Ginestra”. Un Sud rimasto ai margini , anche geografici, della Grande Storia, oppure entrato in essa solo di straforo, come ramo secco di un albero rigoglioso, o arto atrofizzato d’un corpo vigoroso.
Di questo Sud complesso, delle sue più riconosciute , proteiformi facce ne ha intonato un lirico lamento, un uomo del Sud, Salvatore Quasimodo, poeta figlio di una Sicilia amara, dolente, che una cornucopia di odori, di colori , di suoni , d’incanti non è bastevole a riscattare dai suoi affanni, dalle tare che ne fiaccano la volontà ma non ne seppelliscono l’orgoglio. Ne ha fatto canto dolente e soave, dal suo “ aspro esilio” in terra cisalpina, dalla quale spesso ha vagheggiato “le trazzere di fango e di spine”, l’”odore di frutta che secca sui graticci, di violaciocca, di zenzero “ del “grano che gonfia nelle spighe” ( I RITORNI); ha evocato nelle sue liriche -dalle sue notti vissute al di là di un’immaginaria linea gotica delle radici – la dignitosa , quasi sacrale figura degli “ulivi saraceni” e il “vento del Sud forte di zagare”, latore di essenze inconfondibili, araldo di suoni densi di profumi, di risonanze emotive, di magia. Ha rimestato nella memoria, non diversamente da Ungaretti, le acque dei suoi  fiumi, “di fiumi cui il nome greco/ è un verso a ridirlo, dolce” (LATOMÌE): l’Ánapo dell’omonima poesia “Alle sponde odo l’acqua colomba/Ánapo mio” , [fiume già cantato da Ovidio (Fasti, IV, 469) “lenis Anapi” , tranquillo Ánapo] ; il Plàtani che ..”rotola conchiglie/sotto l’acqua fra i piedi dei fanciulli/ di pelle uliva.”, importante corso d’acqua del versante meridionale della Sicilia, dal greto del quale il poeta da bambino seguiva le traiettorie celesti di stelle che si divertiva immaginariamente a collegare attraverso fittizie rette e volùte  “sillabando al buio le preghiere”. E ancora l’Imera “il fiume pieno di gazze/ di sale, d’eucalyptus” ( LETTERA ALLA MADRE)
Spettri di un’età defunta e di luoghi lontani che si risvegliano d’emblai in fondo al cuore e gli insinuano subdolamente, capziosamente nostalgie, inespiati rimorsi.
Ecco dunque ricomporsi, tra le sue reminiscenze, l’immagine idilliaca di Tindari “…mite ti so/fra larghi colli pensile sull’acque/dell’sole dolci del dio…”  serena laddove l’animo del poeta , che ormai vive lontano da essa, in una distanza fisica ma non interiore, è triste, amareggiato; “a te ignota è la terra /ove ogni giorno affondo/ e segrete sillabe nutro “. (VENTO A TINDARI).

capo tindari

Non si è mai spezzato il cordone ombelicale di Quasimodo per la sua terra,  per il Sud, per quell’alfabeto di luoghi e di situazioni che è suo, indubitabilmente suo, suo nel sangue, nelle fibre, nell’intima radice della sua personalità.  Non allontana quelle istanze della memoria, anzi le incentiva, chiede ad esse udienza , quindi ne fa materia di canto, ne fa alata poesia.
E ne fa  altresì testimonianza, grido urlato, voce di denuncia , da un Nord dove ormai dice, forse mentendo a sé stesso, alle sue più intime pulsioni , ha piantato le tende del cuore “il mio cuore è ormai su queste praterie/ in queste acque annuvolate dalle nebbie”.

Afferma (ma nei versi che trasudano amore per la sua primigenia terra, subito smentisce il suo dire) di aver scordato elementi del paesaggio, umano e naturale, folkloristico e sociale, del Sud. Lasciamolo parlare i suoi versi per capire quanta presenza ci sia in questa “dimenticanza”, quanta nostalgia si celi in questo presunto distacco. “…Ho dimenticato il mare, la grave/conchiglia soffiata dai pastori siciliani,/ le cantilene dei carri lungo le strade/ dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie, /ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru/ nell’aria dei verdi altipiani/ per le terre e i fiumi della Lombardia…” Ed ecco subito dopo, il verso sconsolato che certifica l’amarezza insita nel distacco “ Più nessuno mi porterà nel Sud”. E, a ruota, una fotografia in versi di un epos tutto di sofferenza di una terra martoriata “in saecula saeculorum” da pestilenze, dominazioni straniere, noncuranze , catastrofi naturali; un posto geografico e sociale “stanco di solitudine, stanco di catene” ma, ancora oggi, a ben guardare, lasciato solo con i suoi problemi irrisolti, con le sue intrinseche ed esterne schiavitù, le sue colpe e le colpe che sono eredità lasciata da chi dal Sud ha cavato il sangue e ha lasciato vene disseccate, aride di speranze. “Più nessuno mi porterà nel Sud” ripete ancora Quasimodo: quel Sud forse troppo amato da farne materia d’altissimo canto, nella forma di un dolente lamento (LAMENTO PER IL SUD).

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