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Da “Asterisco” n. 1 del marzo 1994

“… Nicola, il fotografo e filosofo, uno che sorseggiando il primo caffè della giornata ti citava a memoria interi passi dei libri di Jean Baudrillard o di Guy Debord, postmodernismo e situazionismo spiegati in mezzo a centinaia di libri e giornali impilati, tutti rigorosamente letti e studiati, anzi consumati quasi, con le pagine grondanti di appunti, richiami, confronti. Strumenti di conoscenza amati d’un amore estremo e vivace groviglio di pensieri analitici, acuti e sferzanti, divinamente riassunti nelle foto di un folletto estroverso, quasi tutte in bianco e nero, concentrate su particolari, volti, azioni quotidiane, bizzarre nature umane, pezzi di civiltà dismesse, ombre, angoli consumati. Una visione fotografica, come nel miglior Dos Passos…” (a.f.)

L’aria, nonostante il passaggio dall’autunno all’inverno, continua a mantenersi tiepida ed inganna anche la natura; così entrando nella casa è facile trovare in salotto dei bei vasi portafiori con la mimosa dentro.
Ai giorni cupi e grigi si alternano splendide giornate azzurrine, limpide, brillanti, invitanti.
Quasi sempre le piazze sono frequentate, i viali riempiti di tranquille passeggiate e la “chiacchiera” diventa più un’abitudine climatica che un pettegolezzo vero e proprio. Nei giorni di sole  i balconi rimangono aperti anche a dicembre, a gennaio, a febbraio.
È inequivocabilmente il Sud.
Un Sud mediterraneo ed equilibrato, estate calde ma non afose, inverni non eccessivamente rigidi, primavere profumate. Un Sud ancora vissuto come tale, poco indagato, forse ricordato in labili memorie d’infanzia.
Una «grande madre», sostiene qualcuno; territori fascinanti, luoghi di miti arcaici, di coscienze mitologiche, bacini liquidi e spazi della geostoria, per dirla con Braudel.
Il Sud, appunto.
Uno strano spazio, uno strano luogo, un estendersi fisico della contraddizione e dell’indecisione; ma anche un luogo deputato all’equilibrio, alla ricomposizione. Un Sud arabo, svevo, borbonico, morfologicamente e felicemente anarchico, imprendibile, attivamente indifferente, antropologicamente astuto.
Un Sud “sudista”, appunto.
Una terra dove è facile vivere ma difficile sopravvivere. Un Sud in gran parte montuoso, con alcune grandi pianure, delle splendide coste ed un mare eterno. Il Sud dei grandi “Empori” ed “Apoikía” greci, delle odissee, degli schiavi di Spartaco in guerra contro Roma. Il Sud dell’oscuro feudalesimo terriero e del latifondo più recente ma altrettanto oscuro. Un Sud a cui ci sentiamo molto vicini, vicinissimi, una terra su cui teniamo i piedi e chissà un giorno anche le ossa. Un Sud dell’anima, infine, una terra a Sud di nessun Nord…
E allora anche oggi siamo qui ad interrogarci sulla sua vicenda, sui suoi uomini, sul suo destino, sul nostro destino.
La contemporaneità totalizzante non conosce le sequenze del tempo ciclico né le identità della memoria; il suo tempo è quello dell’esistente, la sua identità appartiene all’ordine della metamorfosi. In essa, in tale contemporaneità, il Sud “ricarica” la propria esistenza, il proprio diritto a vivere; codici rapidi di simultaneità, di cortocircuitazione, codici performantici, dilagano sul territorio esteso dell’area meridionale. Il Sud ”territorio ironico della post-modernità”…
Altrove ci si interroga sulla fine della modernità, per il Sud l’interrogativo è sulla modernità (o, ancora peggio, sulla modernizzazione); finisce l’epoca dell’industrialismo ma al Sud se ne magnificano le capacità “propulsive”; ovunque trasformazioni in atto (postfordismo, fine del lavoro), trasformazioni epocali, direbbe qualcuno, ma per il Sud banali trasformismi.
Allora questo Sud non può che essere la terra di un’ultima ironia post-moderna, una ironia profumata di mimose e riscaldata dalle tiepide brezze mediterranee. Il Sud della gente, il Mezzogiorno infido e solare, il Sud dei briganti, delle plebi e dei lazzaroni, continua ironicamente a sfuggire, divenendo ormai introvabile, imprendibile, irriconoscibile.
Forse la vicenda del Sud si snoda lungo il sentiero della sparizione e la sua storia è la storia del suo rarefarsi di fronte all’addensarsi degli errori del tempo: meridionali spariti all’Avana o a Porto Alegre, appunto, fantasmi di uomini contro nelle trincee del Carso, scavatori nudi sotterrati nelle miniere di zolfo, ombre dell’alba e dell’imbrunire, curve lungo la strada del latifondo. Fantasmi dello spazio, della guerra, del lavoro, inconoscibili masse di scomparsi e ovunque luoghi della sparizione. Individui autodeprotati verso le nuove geografie della accumulazione capitalistica, in terra belga o nelle coree di Milano o di Torino, nelle baracche di legno di Zurigo o di Francoforte.
Sì, forse la vera storia del Sud è il suo “rarefarsi”; la terra disabitata da nuove congiunture economiche, l’inaridirsi dei mestieri umani attaccati dalla serialità del truciolato impiallacciato, la dignità degli individui definitivamente trasformata in merce.
Sì, forse il Sud è stato addirittura il primo vero territorio modernizzato, spogliato di risorse umane, devitalizzato delle sue energie naturali, funzionalmente marginalizzato, antropologicamente ridotto ad immagine pittoresca prima e criminale dopo. Sì, il Sud è statosvuotato dei suoi braccianti, dei suoi artigiani, delle sue donne, delle sue famiglie, ed è stato riempito di clientele, di sottomissioni, di oppressioni sociali, politiche, economiche. Di questo territorio fantasmatico, di quest’area senza più identità, la nuova ideologia performantica, l’ideologia della produzione e dei consumi seriali, s’incarica di ridisegnare una fisionomia, utilizzando vecchi e nuovi strumenti, vecchie classi e nuovi vampirismi.
No, non è vero che al Sud sia mancata una nuova borghesia moderna, semplicemnete la borghesia meridionale ha assolto al compito cui ere destinata: “mediare” la utilizzazione del Sud attraverso il controllo degli strumenti decisivi della vita societaria e mantenere così, con questo nuovo compito, il proprio sistema di dominio. Controllo del credito, controllo delle istituzioni politiche, controllo del conflitto sociale tramite il sistema della clientela, controllo del mercato del lavoro gestito dalle gerarchie sociali urbane.
La storia recente della modernizzazione al Sud non è la storia della lotta di classe, tranne forse per una breve parentesi; ma la storia accidiosa dei conflitti di una classe e della sua sottoclasse.
La borghesia meridionale ha gestito fasi di “modernizzazioni originarie”, “modernizzazioni autoritarie”, “modernizzazioni industrialiste e borghesi”; ha gestito le aree della creazione dell’insediamento capitalistico, la “Aree Emporio”, le città della speculazione edilizia, le città della distribuzione e della vendita dei prodotti capitalistici, le Città-Standa, le Città-Upim, Napoli, Bari, Catania, Messina, Palermo, Cosenza; ne ha fatto i luoghi-simbolo della nuova ideologia esistenziale, l’ideologia del consumo.
La sua sottoclasse, la piccola borghesia, si è incaricata di organizzare la catena di sant’Antonio di questo processo, la sua diffusione periferica, l’interiorizzazione societaria del codice gerarchico della sottomissione scambiati con un certo quantitativo di beni di consumo e di posti. Ed allora diventa sin troppo facile leggere le trame del tessuto sociale meridionale: imprenditori edili inventati dal clero e dalla Casse di Risparmio, presenze industriali assistite e inquinanti oltre che esterne, manovalanza arruolata in campagna elettorale per posti enel-sip o altro simile, avventure e viaggi in quella legione straniera dell’esistenza che è tutto l’apparato repressivo dello Stato. Accanto a questi, gli addetti ai servizi logistici: medici, avvocati, notai, farmacisti, dentisti, commercialisti, strozzini, commercianti rapaci, impiegati, insegnanti, albergatori e ristoratori, cancellieri, cavalieri, accaparratori, proprietari di cinematografo. Un esercito enorme di “galantuomini”. Un esercito in rotta, vista la crsi dell’industrialismo, la fine del mondo rurale, lo smarrimento del commercio, la caducità dell’istituzione burocratico-statale.
Qualcuno intanto è venuto a spiegarci che il Sud, quello che vive nel potere, il Sud dei politici corrotti dal businness capitalistico, il Sud della criminalità quotata in Borsa, il Sud della speculazione edilizia, il Sud del denaro facile e dei telefonini, ecco quel Sud è un Sud antropologicamente “tarato”, quel Sud è il Sud, il Sud individualista e tribale, il Sud caratterialmente prepotente chiuso da sempre nella pratica del proprio egoistico e familistico interesse.
Sono del dopoguerra, direttamente sbarcate dai mezzi anfibi americani, le grandi ricerche sulle comunità meridionali, “gli studi di comunità”, gli studi di Friedmann sugli “indiani” di Matera e di Banfield sugli “apache” di Chiaromonte. Popolazioni che l’Antropologia culturale di matrice statunitense tenta di conoscere e modernizzare, consigliando l’uso del campo di calcio e della televisione (nella cultura meridionale del dopoguerra mancano purtroppo il whisky, la droga e il Rock and Roll). Popolazioni purtoppo che combattono per il diritto alla terra, forse battaglie idealisticamente modernizzatrici, velleitariamente democratiche e solidaristiche.
Gli Americani, Banfield e i loro epigoni, preferiscono ignorare questo scenario e questi attori, prefersicono comportarsi da “agenti indiani”, preferiscono il ruolo di mediatori della conquista. Naturalmente la vera colonizzazione non può che essere esterna, “… la possibilità di una trasformazione pianificata dipende dalla presenza di un gruppo ‘dal di fuori’ che abbia la volontà e la capacità di operare questa trasformazione…” (Banfield, “Tho moral basis of a backward society” – Glencoe, The Free Press – 1958).
Oltre trent’anni dopo, il signor Putnam, neo-studioso della “realtà meridionale”, liberato oltretutto dall’obbligo di dover ignorare eventuali “soggetti storici”, riattacca la musichetta conosciuta, il refrain mandato a memoria, e descrive la frontiera selvaggia, il far west locale dove “da sempre” domina la legge della colt e del winchester in versione indigena. Chi potrà portare l’ordine e la legge a Kansas City, a Ferrandina, a Laino Castello? Chi potrà garantire un nuovo sviluppo economico tra le ghost-city dell’interno e le pizzerie della costa?  È facile: una nuova imprenditoria, quella scampata alle inchieste giudiziarie, quella industrial-agricola finanziata dalla C.E.E. (a sua volta spesso truffata), lo Yuppismo delle nuove professionalità e, “dulcis in fundo”, una nuova intellettualità neutra e scientista, pronta al neo-servaggio, accademicamente aggressiva.
Tanto si sa, la fine delle ideologie significa fine del dominio e dell’oppressione, liberazione dell’obbligo giacobino, proprio di questa intellettualità, della direzione dei “processi rivoluzionari”; adesso occorre “dirigere”, con altre forze beninteso, la società che cambia, la democrazia totalitaria.
Un proverbio dice: “Quando non resta più nulla, il Diavolo mangia le mosche”.
C’è tuttavia ancora, nel parlare del Sud, del Mezzogiorno, una sorta di atteggiamento punitivo, una occhiata storta, un rivolgersi autoritario tipico del padrone, di chi abituato al comando si aspetta sempre l’esecuzione perfetta degli ordini dati. Questo irrigidimento autoritario, impositivo, sprezzantemente pedagogizzante, lungi dall’essere strumento anche dolorosamente coercitivo di crescita, rivela al contrario la propria natura dominatrice e di classe. La rivela nel voler, a ttui i costi, costi quel che costi, imporre il proprio habitus ad un soggetto dichiarato di volta in volta e a seconda delle contingenze storiche, completamente nudo ed invedibile. La rivela nel tentativo di contrabbandare la superficiale analisi di costume, il “luogocomunismo”, lo sperimentalismo accattone e datato, riciclato negli echi leghisti contemporanei, come moderna capacità d’analisi e moderno strumento addirittura interdisciplinare, di conoscenza etrasformazione. C’è anche in questo caso tutta una tradizione in cui collocarsi, una tradizione di miserabilismo intellettuale e di accademismo becero nonché di giornalismo cocchiero.
A chi apparentare altrimenti gli squallidi estensori di cataloghi neolombrosiani appositamente ed interclassisticamente compilati per il Sud; a chi apparentare i rozzi studiosi visitatori del meridione; a chi apparentare i reporter dell’al di qua?
PER FAVORE, STATE LONTANI DA MATERA!

Nicola Ferraro

 

Redazione Blog: La foto in evidenza di Nicola Ferraro è, se la memoria non ci inganna, tratta da una mostra ideata e curata dal professor Vittorio Cappelli. Non conosciamo il nome dell’autore. Ce ne scusiamo e ci dichiariamo pronti alle più sentite precisazioni per poter dare a Cesare quel che è di Cesare.

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