Condividi:

L’opinione di Danilo De Biasio, Fondazione Diritti umani. La storica voce di Radio Popolare: «I ragazzi non sono tutti schierati con la kefiah o con la bandiera ucraina, ma sono vicini al dramma dei civili»

I manganelli sulla testa degli studenti sono tornati a sorpresa o in realtà non erano mai passati di moda? A che servono, per far crescere la paura o la rabbia? È l’inizio di una strategia di tensione crescente, capace di riaprire la ferita del G8 di Genova del 2001? Ne parliamo con Danilo De Biasio, direttore della Fondazione e del Festival dei Diritti Umani e storica voce dell’emittente indipendente milanese Radio Popolare.

«L’autorevolezza delle forze dell’ordine non si misura sui manganelli», ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Se uno va in piazza con tutti i permessi, senza sputare, insultare, minacciare, non ha nessun tipo di problema» è stata la risposta del leader della Lega Matteo Salvini. Perché i manganelli di Pisa hanno colpito l’opinione pubblica e anche la politica più duramente di quelli di Torino, Firenze o Catania?
«Perché erano pochi ragazzi, disarmati, non c’erano nemmeno dei cartelli. La carica di polizia in uno spazio ristretto, senza via di fuga, ha fatto capire a chiunque abbia visto quelle immagini che si è trattato di una prova di forza contro persone inermi. E si aggiunge anche il fatto che alcune figure questa volta hanno avuto spazio per dire: poteva essere mio figlio. E questo ha creato empatia. Ma sarebbe sbagliato parlare di un episodio isolato, quello di manganellare gli studenti è ormai un trend».

Quando inizia, questa “nuova moda”?
«La data di nascita è lo scorso ottobre, con le manifestazioni studentesche contro il governo a Torino».

Amnesty International dopo le manifestazioni dello scorso 2 e 3 ottobre ha parlato di «uso della forza illegittimo ed eccessivo da parte delle forze di polizia impiegate in funzioni di pubblica sicurezza». Perché la considera una data spartiacque?
«Perché è stata la prima dimostrazione che sì, si poteva fare. Ricordo la frase ambigua della presidente del Consiglio Giorgia Meloni che disse “se le contestazioni sono dei centri sociali, lo considero perfettamente normale. Anzi, mi ricorda che sono dalla parte giusta della storia”. Fu un avallo dell’uso della forza, percepito immediatamente da tutte le forze di polizia, che sanno interpretare perfettamente i messaggi della politica. E il messaggio era chiarissimo: avete carta bianca».

Quali sono i risultati dei manganelli sugli studenti?
«Da una parte le persone meno motivate sono spinte a ritornare a casa e chiudersi dentro. Dall’altra credo ci sia un tentativo implicito, ma nel caso del governo abbastanza dimostrato nei fatti, di alzare la tensione. Ci sarà sempre qualcuno che deciderà di alzare le mani o fare qualcosa di più grave, il che poi autorizza la mano pesante. La grande novità rispetto al passato è un plauso molto diffuso alla richiesta di ordine e disciplina. Se questo richiede le manganellate, ben vengano. Così ogni forma di dissenso viene mortificata e annacquata in unico grande calderone. Se si investe sull’insicurezza, allora le persone ti chiederanno più sicurezza. Alzare la tensione è quello che permette di dire che c’è bisogno di più manganello, più telecamere. Se non hai fatto niente, di male, perché dovresti avere paura a mostrare i tuoi documenti? Sta tutto qui».

Lo scorso primo febbraio a Bruxelles abbiamo visto i trattori devastare la piazza davanti al Parlamento europeo. Anche in queste ore assistiamo a scene da “guerriglia urbana”. Se uno slogan vale una manganellata, mettere a ferro e fuoco una città cosa vale?
«Sono due gli aspetti da valutare. Il primo è un problema di forza. Prova a fermare uno studente a Pisa, poi prova a fermare un trattore. L’operatore di polizia rischia di farsi male, per pestare con un manganello non si corrono particolare rischi. Il secondo tema è la strumentalizzazione politica. La campagna dei trattori in buona parte non erano contro il governo, ma contro l’Europa. E il governo italiano li ha usati per dire esattamente questo. Alla prima manifestazione la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha detto che avrebbe rivisto il pacchetto agricoltura. Parte del decreto era già cancellato, ma lei ha comunque sfruttato la situazione per dire “ho ascoltato le persone”».

Nel 2001 il clima di tensione crescente portò al disastro del G8 di Genova, da lei seguito con Radio Popolare e descritto come “la nostra piccola Tienanmen”. C’è il rischio di tornare indietro?
«Non sono un veggente, ma sono certo che rispetto a 23 anni fa è cambiato tutto. Manca totalmente l’aspetto internazionale della protesta, con il pregresso delle contestazioni nell’America latina, in alcuni casi poi arrivate al governo. Niente di tutto ciò sta accadendo oggi. Per Radio Popolare organizzai la copertura del G8 di Genova, avevamo chiaro fin dal primo momento che ci sarebbe stata una risposta militare per distruggere, anche fisicamente, quel movimento internazionale di idee. E da quel momento in avanti non c’è stato nulla di paragonabile».

 Il sentimento di orrore e sdegno per la catastrofe umanitaria in corso a Gaza può essere un nuovo collettore?
«Mi sembra difficile. Buona parte dell’informazione e comunicazione si è stretta intorno alla par condicio. Il fatto di non poter dire nulla su Gaza, fino a che non dici qualcosa su Israele, non sull’Ucraina se non parli della Russia, sta diventando una gabbia. Aggiungo anche un altro elemento, sarebbe sbagliato pensare a un’operazione squisitamente italiana. Il sangue versato al G8 di Genova non è stato un’operazione italiana, ha avuto solo esecutori materiali italiani. Lo stesso vale nel caso della comunicazione sulla guerra in Medio Oriente. C’è una sensazione complessiva che la forza militare sia una prova di forza necessaria, dunque noi non possiamo fare niente per evitarlo. Se leggi Haaretz (quotidiano israeliano di opposizione, ndr) trovi dei ragionamenti che da noi sarebbero facilmente bollati come antisemiti».

Dopo l’invasione di Afghanistan e Iraq sventolavano le bandiere della pace. Non se ne vedono più molte nei cortei. Come mai, è un simbolo che non dice più nulla?
«Non funzionano più per la crisi economica e la precarietà degli ultimi undici anni. È difficile riuscire a trovare delle forme di mobilitazione solidale quando si è preoccupati per la propria pancia, per il destino della propria famiglia. Se ci fosse un sindacato serio davanti ai cinque morti di Firenze si sarebbe bloccata la città, con una manifestazione nazionale. Vale secondo me lo stesso per il movimento pacifista. Chi non scende in piazza per gli altri è una persona di destra? No, è una persona lasciata sola a occuparsi della propria sopravvivenza e di quella dei suoi cari».

Con la Fondazione dei diritti umani girate molto spesso nelle scuole, che aria tira?
«Da tre anni siamo nelle classi per realizzare podcast insieme agli studenti. Non ci è mai stata fatta una proposta sui temi ambientali, ma come è possibile, mi chiedevo. I ragazzi lo danno talmente per scontato, è un dato di fatto come la fluidità di genere e il sapere che vivranno una vita lavorativa precaria. Se si riesce ad agganciarli, sono molto più avanti di quello che pensiamo. Ma se continuiamo a dargli le manganellate e dargli degli sdraiati e succubi dei social, non ci verranno a raccontare molto».

Che cosa gli interessa approfondire?
«Il diritto all’istruzione, che vedono ancora come un ascensore sociale, i temi delle persone in difficoltà, il disagio psicologico, il carcere questioni di genere, non tanto sulla violenza quanto sulla disuguaglianza. Qualcuno comincia a ragionare su temi etici, come eutanasia e fine vita. Abbiamo portato una ragazza di 16 anni a parlare di cosa voleva dire scappare da Karkin, in Ucraina. Sono rimasti colpiti dal suo racconto in prima persona: il rumore dei droni, il suo gatto che non è riuscita a portare via, la nonna che non è partita con lei. Non ho visto nessuno scegliere da che parte stare in modo acritico, tutti con la kefiah palestinese o tutti con la bandiera ucraina. Quello che li colpisce, li spaventa e li smuove è il dramma dei civili».

di Nadia Ferrigo
pubblicato il 26 febbraio 2024
su www.lastampa.it

ripreso da Tesjak
per Asterisco 2.0

 

 43,182 Visite totali

Condividi: